La Castagna di Poggio

I castagneti di Poggio e Marciana hanno una lunga vita e una storia antica. Di certo il loro grande impianto è da collegare al XVI secolo, con il Rinascimento Elbano.

In quel periodo, a seguito dell’intervento dei Medici, l’isola d’Elba poté finalmente rialzare la testa dopo due secoli bui. Grazie anche alle castagne dei castagneti piantati dai fiorentini, gli elbani uscirono da sette generazioni di miseria, malattia e violenza.

Eppure vivono ancora oggi alberi molto più vecchi. Uno dal tronco più largo di due metri di diametro si trova a ridosso delle Mura della Fortezza Pisana, dalle dimensioni ci azzardiamo a scommettere che deve avere tra i seicento e i mille anni di età. Apparterebbe dunque all’epoca pisana, nel periodo compreso circa tra il 1000 e il 1400.

L’ultima domenica d’ottobre anche quest’anno a Poggio c’è la Castagnata, una festa antica, abbandonata e poi ripresa da una quarantina d’anni grazie ai ragazzi e alle ragazze del Circolo Amici di Poggio.

Potrebbe trovarsi interessante leggere un breve estratto dallo studio di Pintor (Pisa, fine ‘800) sui documenti che riguardano l’Elba provenienti dagli archivi della Repubblica Marinara di Pisa. Ve lo riproponiamo:

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Ma il malessere economico doveva sembrare tanto più grave là dove, come nell’isola d’Elba, la straordinaria ricchezza del suolo ed il fiorire di una industria molto proficua avrebbero dovuto riflettersi in una relativa agiatezza degli abitanti, che contribuivano con la loro opera, del resto compensata, a renderla più vantaggiosa. Anzi, gli isolani di queste benemerenze avevano coscienza e le richiamavano in proprio favore; ma non sempre forse le riconosceva e le compensava adeguatamente la repubblica. Anche gli abitanti di Castiglione della Pescaja, dove essa esercitava un’altra industria ugualmente produttiva, quella del sale, nel 1332 si lamentavano di essere stati costretti, per adempiere i loro obblighi verso l’amministrazione pisana, a vendere persino i corredi delle loro spose, cioè i letti, i materassi, gli stessi ornamenti muliebri e per evitare il pericolo di una nuova esosa imposta, che li avrebbe obbligati ad abbandonare la loro terra (la minaccia era, come si vede sempre la medesima), si dichiaravano pronti a prestare la loro opera nella ricostruzione delle mura del paese, che le piogge torrenziali avevano distrutto, lasciando cosl il territorio affatto aperto ai nemici. […] per l’isola d’Elba i tesori racchiusi nel suolo ridondavano in gran parte a vantaggio del comune di Pisa, e, fra i privati, dei negozianti che al commercio minerario attendevano con molto profitto. Sugli abitanti, impiegati per la maggior parte nei lavori di scavazione del ferro ricadevano i mali non lievi derivanti dalla sterilità del suolo, dalla malsanità dell’aria, dalle pubbliche gravezze e dai frèquenti assalti dei nemici. Il suolo di natura essenzialmente granitica e calcarea, non poteva certo essere fertile: gli abitanti del castello di Montemarciale, sempre a fine di ottenere più larghe concessioni, facevano notare agli Anziani come in tutta l’isola fosse l’unica fortezza abitata e come, nonostante le concessioni, non si trovasse nessuno che vi si volesse stabilire se non vi fosse costretto da qualche ragione, tanto era infelice il paese per il clima e per il suolo. E nel 1377, gli abitanti di Poggio e Marciana chiedevano parimenti certe esenzioni, facendo notare come vivessero in luogo silvestre e sterile. Malgrado queste sfavorevoli condizioni naturali, una parte degli isolani attendeva all’agricoltura, mentre gli altri, (ed erano i più numerosi) erano dediti alla lavorazione del ferro e solo pochi, almeno per quanto è dato dedurre dai documenti, esercitavano, come sarebbe da aspettarsi, professioni marinaresche. Quanto ai lavori agricoli, gli abitanti di Capoliveri nel 1359 si scusavano di non poter esercitare la sorveglianza necessaria sugli sbanditi esistenti nel territorio del comune, adducendo le occupazioni campestri; le sole che fornissero ad essi i mezzi di sussistenza: et homines ipsius terre sunt laborantes ac etiam pauperes et egentes et tamquam laborantes terre vadunt ad laborandum vineas et alia rusticana servitia faciendum et multotiens quidem nullus remanet in dicta terra.

Ad ogni modo i prodotti del suolo e per la quantità e per i generi di cultura, non sopperivano ai bisogni della popolazione, che del resto, come vedremo, era assai scarsa. Perciò fu una delle maggiori cure dell’amministrazione pisana il provvedere perchè gli abitanti dell’isola, e specialmente quei cittadini di Pisa che vi risiedevano per ragioni d’ufficio, non mancassero del necessario. In quest’intento gli Anziani adottarono nei diversi tempi disposizioni pure diverse: infatti o incaricarono i propri ufficiali e specialmente il doganiere, di vendere ad un prezzo determinato, tanto ai soldati di guarnigione nel l’isola quanto ai privati, il grano che essi stessi, od altri impiegati appositi, importavano dal continente, o ne lasciarono l’iniziativa ai privati, direttamente interessati nella lavorazione delle miniere o fattisi provveditori a scopo di lucro, o finalmente, riconoscevano ai comuni il diritto di provvedersi del grano medesimo per gli abitanti e a questi singolarmente per le loro famiglie. Male più grave della sterilità del suolo e della conseguente mancanza di viveri era l’insalubrità dell’aria, cui è certamente da attribuire, almeno in parte, la scarsezza della popolazione dell’isola durante il sec. XIV. Una prova di non buone condizioni climatiche, s’ha da trovare nelle continue licenze che il governo della repubblica doveva concedere, per ragioni di malattia, ai suoi impiegati; i quali mostravano forse anche una certa riluttanza ad andarvi. Il soggiorno nell’isola non riusciva gradito nemmeno ai confinati, che, secondo una consuetudine molto antica, la quale offrì materia alla tradizione, vi eran mandati dal comune di Pisa. Uno di questi, nel 1331, giustificava la sua supplica di ottenere una più mite destinazione, facendo osservare agli Anziani che, infermo da lungo tempo di febbri, nell’isola mancava di medico e de aliis necessariis ad medicinas, e, per questa ragione, impetrava di essere trasferito, anche con certe restrizioni, a Firenze. Queste deplorevoli condizioni sanitarie si aggravarono per la pestilenza che v’infierí nel 1348 e che ebbe conseguenze assai gravi anche sullo stato economico dell’isola. Il primo documento in ordine di tempo, che ce ne serbi memoria è dell’anno 1350: con esso i fabbricherii, che, come vedremo, attendevano alla trasformazione e alla lavorazione del minerale greggio, si scusavano di aver mancato negli ultimi due anni agli impegni contratti per essere autorizzati a esercitare quell’industria, appunto a cagione della pestilenza, che, determinando una grande mortalità fra i lavoranti, aveva costretto ad interrompere i lavori. Essi si riferivano dunque al 1349 ed alla famosa peste che afflisse in quell’anno l’Italia e di cui ci lasciarono lugubre ricordo il Villani, il Petrarca ed il Boccaccio. Il terribile contagio, che è tradizione diminuisse di ben due volte la popolazione di Pisa, si propagò con violenza, come in tutta la Toscana, anche nell’Elba e, colla morte, vi portò la miseria, di cui i pochi abitanti superstiti mai più si rialzarono. Già vedemmo come, nello stesso anno 1348, i comunisti di Rio e Grassula, forse con una esagerazione giustificata dalla circostanza, scrivessero agli Anziani che per la pestilenza, quasi tutti eran morti: ancora cinque anni dopo si sentivano gli effetti del gran dissesto economico che la peste vi aveva arrecato, e gli stessi comuni esponevano l’ impossibilità di soddisfare i loro obblighi verso Pisa, perchè, propter mortalitatem patitam, si era verificata una gran diminuzione nei lavoranti ed eran cresciute naturalmente le pretese dei pochi superstiti. Ma non basta: dopo altri otto anni (ne eran passati tredici, dàcchè la malattia vi aveva infierito),se ne deploravano ancora le conseguenze in certi Ordinamenti mandati in vigore nel 1361, i quali anzi offrono a questo riguardo un’importante notizia: la popolazione dell’isola, che prima del contagio era di 1500 anime, era allora ridotta a sole 500. Questi dati volgono a dare un’idea della violenza del morbo, da cui anche l’ordine pubblico fu turbato. Quando dunque gli amministratori dei comuni elbani si lagnavano delle soverchie pretese dei lavoranti, non adducevano una speciosa scusa per riuscire nel loro intento. Anzi, queste pretesa avevano avuto delle manifestazioni rumorose per parte degli operai delle miniere, non alieni, per quanto ci è dato comprendere, dagli scioperi in massa. Infatti essi, che nel 1319, per un piccolo ritardo intervenuto nella distribuzione delle paghe, avevano interrotto i lavori, nel 1350, poco dopo la pestilenza, erano venuti ad aperta ribellione e si erano rifiutati di estrarre il minerale: Cavatores ipsius vene nullo modo intendunt de ea cavare et quando doanerius dicit cavatoribus diete vene quod intendant ad cavandum de ea, inde derident. I Savii, ai quali il priore degli Anziani riferiva questi fatti, ben lontani dal consigliare la violenza, additavano, come più opportuni ed efficaci, i mezzi conciliativi e proponevano di chiamare i migliori tra i lavoranti a Pisa e di sentire le loro ragioni, prima di prendere qualunque provvedimento. Come si vede, le disposizioni del governo non erano sfavorevoli ai reclamanti. Del resto, anche nel 1362 gli Anziani colla deliberazione che abbiamo ricordato in principio, riconoscevano essi stessi lo stato economico non molto lieto dei comuni dell’isola, derivandolo da un raffronto molto eloquente tra il numero degli abitanti di ciascuno di essi ed i pubblici oneri loro, rispettivamente assegnati: pesi veramente molto gravi e sproporzionati alla popolazione assai scarsa.

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Questo testo è stato copiato dal dattiloscritto disponibile online sulla preziosissima biblioteca “wikielba” di mucchioselvaggio.org

Seguono foto della Castagnata di dieci anni fa.

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tutte le foto sono state prese in prestito dal sito mucchioselvaggio.org

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