Dell’ignoranza emotiva e i diversamente intelligenti

Una volta quando c’era uno – per cosí dire – diversamente intelligente, il branco dei normali lo bullizzava, lo prendeva in giro, a pallonate, a scappellotti.

Oggi per fortuna c’è il DSM V, cosí succede come al figlio dell’amica del mio amico, che ha la Sindrome col nome straniero di un tale. Dice: se la mamma si taglia un dito e sanguina oppure si rovescia l’olio bollente addosso e comincia ad urlare, lui resta impassibile e continua a giocare alla play. Non ha empatia. Ha la sindrome del tizio, bisogna essere comprensivi ed aiutarlo.

Forse dovremmo metterci tutti un’etichetta addosso. Tipo Achille lo vedrei bene con uno scudo di bronzo con iscritto sopra “Mi fa male il tallone, lasciatemi in pace”.

Pensate a quante volte vi capita di dire a un amico: “Chi, quello? Lascialo perdere, è un imbecille!” – non negatelo, lo so che lo fate e, se qualcuno vi fa notare che siete dei fascisti emotivi o che sposate la cancel culture, voi negate.

Non sarebbe tutto più semplice se avessimo tra noi tutti lo stesso atteggiamento comprensivo che abbiamo col figlio dell’amica del mio amico?

Pensate un po’ a come sarebbe facile se invece di dire:

Quella tipa lasciala perdere perché è una testa di cazzo!

Noi dicessimo piuttosto:

Con lei cerca di essere molto paziente e comprensivo perché ha la Sindrome di Schwanzkopf.

Schwanz che?

Schwanzkopf. Vuol dire Testa di Cazzo in tedesco.

ELBANO/AIΘΑΛΙΔΗΣ

FACCE DI ETNONIMI DA SPIAGGIA

Tra gli iapigi ora il tempo passava meglio. Un grande maestro s’era installato tra loro. Si dice che avesse una protesi alla gamba destra tutta dorata, per questa tecnologia tra gli iapigi i più semplici dicevano che fosse un discendente del primo re scandinavo, quello al quale una volta morto le sue genti immigrate nell’Egeo eressero un monumento dal quale diffusero il suo culto divino.
Il grande maestro viaggiava a bordo di una tavola dorata, una sorta di flying skate, che raccontava essere un regalo del suo amico guru scandinavo ambulante, che a bordo di questo golden skate girava il mondo raccontando storie che cambiavano la vita di chi le stava ad ascoltare.
Un giorno uno dei partecipanti a un corso sulla memoria chiese al grande maestro di raccontare qualcosa della sua infanzia, come esempio di come si manifestasse la memoria della quale stava parlando in termini molto tecnici a lezione.
Io nacqui Elbano, disse. Nella prima vita ch’io ricordi, sei vite fa, io nacqui Elbano. Elbano era il compagno di Orfeo, Giasone e Medea, in un epico periplo di 648 anni prima.
In greco, Elbano, si puó scrivere ΑΙΘΑΛΙΔΗΣ oppure ΑΙΘΑΛΙΤΗΣ, ed é il nome di un deme di Atene, oltre ad essere l’etnonimo degli abitanti delle isole tirreniche (del Tirreno e dell’Egeo), per cui puó darsi che fosse proprio identificativo di un ethnos degli “etruschi delle isole”. Forse proprio i più arcaici, ci limiteremo a dire, senza scomodare “le isole in mezzo al mare”, Mediterraneo, delle quali parlano gli antichissimi testi egizi raccontati per primi da Rougé, un allievo di Champollion.
Elbano (ΑΙΘΑΛΙΔΗΣ) era l’ambasciatore di bordo della nave Argo. Era lui che si occupava di scendere per primo nei porti per avviare le trattative di ormeggio e presentare la nave e spiegare le ragioni della sosta.
Elbano parlava certamente più lingue, e dovette essere una personalità di spicco a tutto tondo, come ci viene ricordato dal fatto che fosse figlio di HERMES/TURMS/TERMINUS, dio del limite e della misura.
Pitagora, il grande maestro della Iapigia, era effettivamente elbano (ΑΙΘΑΛΙΔΗΣ) in senso territoriale, in quanto la sua famiglia veniva da “un’isola etrusca del nord”, come ricordato dai greci (da Aristotele e non da Aristarco, cfr. Gigon, Aristotele, vol. 3, Capit. sulle opere di Aristotele intitolate a Pitagora e ai Pitagorici, purtroppo non giunte fino ai giorni nostri).
Ovviamente, non sto sostenendo né che Pitagora fosse Elbano, né che avesse davvero una coscia d’oro, né tantomeno un surf volante regalatogli da Abaris lo Scandinavo.
Ma ammetterete, che senza aver inventato niente, la storiella che avete appena letto si presti ad allietare le sudate che vi state facendo sotto l’ombrellone o seduti in ufficio.

OUADJ-OUR

Wȝḏ-wr OUADJ-OUR

Se Ouadj-our significasse “terra coperta dall’acqua” potrei avere sistemato l’annosa questione
L’ACQUA E LA MEMORIA DEGLI EGIZIANI

premessa 1) Crizia, racconto di Solone in erasmus in Egitto
premessa 2) Maspero ha rovinato il lavoro di Rougé
premessa 3) h2o
premessa 4) Erodoto dice che gli egizi non hanno “Nettuno”
premessa 5) Plutarco dice che gli egizi odiano il mare
premessa 1b) il livello del mare si alza di circa 100 metri, gli egizi ne potrebbero aver memoria
premessa 2b) “le genti che vivono nei paesi stranieri oltre la terra coperta dall’acqua” volgarmente detti “popoli del mare” o “popoli del grande verde” o “popoli delle isole in mezzo alla terra coperta dall’acqua”, abitanti oltre lo OUADJ OUR.
premessa 5b) Odiano il mare perché prima abitavano la terra che è stata ricoperta dal mare, vedi 1b

considerato 6) *, 7) ** e 8) ***

Trš, Lk, Šrdn, Šklš
(comme disait si bien Rougé)
erano
Tirreni (rinald/subapp/protovill), Liguri (kyrnos/aithalia), Sardi (nuragici), Sikelioti (siculi e forse anche maltesi), popoli che abitavano paesi lontani rimasti emersi in forma di isole dopo l’innalzamento del livello del mare (che ha invece cancellato altre civiltà, come ricorda lo stesso Platone).

Il dramma cappottato

Se non ci si ingannasse da soli, non si potrebbe vivere sulla Terra.

La frase s’affaccia tra parentesi buttata in mezzo a un dialogo surreale tra la smorfia del ritratto di nonno Andrey che sembra mormorare “Brancoli nel buio” al vecchio Anton, a questo rimbrotto paternalistico neurolinguisticamente indotto dalla presa di coscienza di non saper padroneggiare se stesso.

La parentesi si apre con Quelli gravemente feriti in guerra se gli si chiede come stanno dicono che non è niente. Non è niente – una sdrammatizzazione assoluta. Enantiosemantica che rovescia la tragedia in comica, esorcizza la morte sfigurandola da terrificante in comica. Forse in nome di un ideale più grande, di fronte al quale la vita umana del singolo non ha valore se non in funzione della vittoria della nazione sotto la bandiera della quale combatte.

Forse finirò di leggere questo Nidi di nobili di Turgenev. Quasi tutti i grandi romanzi russi dell’Ottocento stanno a me come Moby Dick a Leonhard Zelig, in un affettuoso e sincero legame bibliofilico, sempre differiti a un domani che non verrà mai, restano perennemente tra le letture da fare, fatte salve rarissime eccezioni – accidenti d’una rilevata (aufgehoben) cultura postmoderna dalla quale mi sono sapientemente affrancato.

Siamo ancora in grado di leggere i Russi per quello che sono? Possiamo evitare che l’immagine di un soldato moribondo in una trincea si misceli nel nostro imprinting a quelle dei soldati americani dei romanzi o del cinema anglosassone con le quali è stato riempito fino all’ultimo cluster neuronale della nostra corteccia mnemonica? Possiamo formattare noi stessi e ricominciare a scriverci sopra nuovi mondi?

Anche se potessimo c’è da chiedersi perché mai dovremmo farlo. Perché mai dovremmo farci riprogrammare la mente cancellando le gif tra le sinapsi dei vari Cattivi Russi, dalla tenebrosa spia senza cuore del KGB al pietoso homo roboticus Ivan Drago. Forse non c’è niente da cancellare. Anche perché cancellare tutti i nostri pregiudizi e tutto quanto quel che diamo per scontato (selbstverständlich) noi finiamo per cancellare noi stessi. Piuttosto, possiamo prendere coscienza, sapere di che pasta (bubble gum) siamo fatti e – parafrasando il buon vecchio Vasco Rossi tenere bene a mente che Non siamo mica gli americani che loro possono sparare agli indiani, ma al tempo stesso lo siamo. Siamo una pseudo-nazione, la cui sovranità è locale al 20%, europea al 30% e americana per il resto, le scelte che contano, come quella di chi deve fare il Presidente del Consiglio, senza golpe ferire.

Se non ci si ingannasse da soli, non si potrebbe vivere sulla Terra.

Scrive Turgenev dei soldati feriti gravemente che se gli si chiede come stanno rispondono che Non è niente. Niente è la nostra vita, che se non c’ingannassimo con futili ed effimeri progetti esistenziali, sarebbe invivibile, impraticabile.

Niente tutto quello che facciamo, che progettiamo, che costruiamo, di fronte a un destino che non ci appartiene, non perché sia nel disegno delle Moire o nei capricci degli Dèi, ma per la incontrollabile arroganza e mostruosa prepotenza dei sovrani veri. A ché metter su famiglia e risparmiare per un futuro migliore quando per l’avidità di pochi potrebbe non bastarci uno stipendio a pagare una bolletta, o non bastarci una vita sana e morigerata a sopravvivere ad un’esplosione nucleare?

Allora non ci resta che prendere atto di tutte le illusioni e gli inganni che ci sono stati narrati fin da bambini quando giocavamo ai cowboy e con un amorevole sorriso affrontare la vita e le sue vicissitudini esclamando di quando in quando un drammaticamente cappottato NON È NIENTE.

Non andando ad Ānanda

Contrariamente al nostro greco alpha privativo la Ā di Ānanda indica una località, nel caso specifico il luogo dove si trovano la serenità, la pace dei sensi, la beatitudine.

Tradurre il concetto in termini coerenti risulta difficile se non al prezzo di spiegare passo passo il nostro ragionamento e corredare i singoli termini iconici di apparati didascalici.

Parole che potrebbero tenerci vicini senza rischiare sfondoni superdivulgativi sono certamente quelle della nostra filosofia. Prima di cercare una corrispondenza esatta lasciamoci trasportare dallo Spirito, seguiamo cioè una strada a noi impropria, una via del Brahman.

Ripartendo dal senso di Ānanda come tópos, e più essenzialmente come tópos ipertopico, distopico, utopico, ovvero come luogo che per essere raggiunto richiede la rinuncia al paradigma di spazialità dal quale si proviene – un non-luogo dunque, seppur non nel modo in cui lo intende Marc Augé. La Ā iniziale diventa allora una determinazione di non-località, o meglio un luogo non-determinabile, e non determinabile non in quanto non si può sapere dove si trova ma in quanto si trova in un non dove.

Un luogo, in un certo qual modo, privativo. Privativo come la nostra alpha, e pensiamo per cominciare alla alpha di Alëθeia. Questo, agli inizi della filosofia, nel poema di Parmenide, è il (non) luogo dove ci conduce la Dèa Dike, dove Nüx te kai ‘Ëmerë – la notte e il giorno – si salutano scambiandosi di posto in chiasmo (in Esiodo χάσμ’). La Giustizia (Dike) sta sul ponte che separa incrociandoli questo mondo con l’altro mondo, questi luoghi con altri (non) luoghi. Sono separati e irricongiungibili ma al tempo stesso interconnessi ed uniti (àmphìs echei).

Oltre il ponte ci sono le strade verso la chiusura del ciclo vitale, che non finisce con la morte – sia essa fisica che spirituale – ma prosegue per un òdós che richiede méθ-οdos. Un percorso che richiede un equipaggiamento e una mappa, prerogative imprenscindibili per non essere condannati alla dimenticanza e alla smemoratezza del fiume Lëθë. Qui Parmenide introduce l’Alëθeia, il (non) luogo dove ci si ricorda di tutto e se ne conserva memoria anche dopo la rinascita – sia fisica che spirituale.

In questo percorso servono le molliche di Pollicino. Perché, se è vero che nella morte fisica ci si riunisce completamente al sé originario espropriandoci al Brahman, nella morte (e rinascita) spirituale non ci si può dissolvere completamente ma si deve garantire una continuità al veicolo della nostra esistenza individuale – il soma della psüchë.

Non andando ad Ānanda io non vado ad Alëθeia, non perché io non lo voglia ma perché non me ne sento ancora degno. Se io non vado dietro agli altri alla iurta della Zea non è perché non voglio attraversare il ponte della “bilancia del cosmo” e incrociare la mia morte con la vita in un chiasmo di rinascita. Tutt’altro. Io da una vita non faccio che morire, interpretando alla lettera la mia crescita (krein) come uno strappo, una lacerazione, un abbandono (Gelassenheit), una costante perdita, rinuncia sistematica a tutto ciò che si è conquistato. Questo fa di me costantemente qualcuno che (ancora) non sono, pertanto indegno al presente di essere se stesso.

Mi si perdonerà questo complesso paradossale, che è insieme di superiorità e d’inferiorità? Ho diritto – solo perché il diritto è umano, se non addirittura ontologico – ad esistere in mezzo agli altri? Posso affacciarmi e partecipare a ciò che non condivido mai fino in fondo e continuare il mio cammino insieme socratico e pitagorico, dubbioso e certo, teoretico ed apofatico? Suona come un grande caos danzante nietzscheano, un ponte di giustizia, una bilancia cosmica, l’enantiodromia orbitale, l’aurora crepuscolare, un uomo da solo nella nebbia.

E quando forse la prossima epopteia mi lascerà esangue e pio, allora sarò pronto, paradossalmente pronto, in quanto disciolto nel Brahman non avrò più un corpo a veicolarmi. Sarò solo un’onda non andando a ma essendo in Ānanda.

DONI ELBANI

ALTRO POEMA DEI DONI
di Jorge Luis Borges

Bisogna che ringrazi il divino Labirinto degli effetti e delle cause

Per la diversità delle creature che formano questo singolare universo,
Per la ragione, che non cesserà di sognare con una mappa del labirinto,
Per il volto di Elena e la perseveranza di Ulisse,
Per l’amore, che ci lascia vedere gli altri come li vede la divinità,
Per il duro granito e l’acqua fluida,
Per l’algebra, palazzo di cristalli precisi,
Per le mistiche monete di Angelo Silesio,
Per Spinoza, che forse decifrò l’universo,
Per il fuoco folgorante,
Che nessun essere umano può guardar senza un’antica meraviglia,
Per il castagno, il ciliegio e il rosmarino,
Per il pane e il sale,
Per il mistero della rosa, che prodiga colore ma non lo vede,
Per certe vigilie e giornate del 1799,
Per i duri butteri che nella Maremma accompagnano le bestie e l’alba,
Per la mattina al Maciarello,
Per l’arte dell’amicizia,
Per l’ultimo giorno di Socrate,
Per le parole che in un tramonto si dissero da una croce all’altra croce.
Per quel sogno dell’Islam che abbracciò mille notti e una notte,
Per quell’altro sogno dell’inferno,
Della torre del fuoco che purifica,
E delle sfere gloriose,
Per Swedenborg, che chiacchierava con gli angeli per le vie di Londra,
Per i corsi d’acqua segreti e immemorabili che mi scorrono dentro,
Per la lingua che, secoli or sono, parlai in Etruria,
Per la spada e l’arpa dei longobardi,
Per il mare, che è un deserto risplendente
E una serie di cose che non sappiamo,
E un epitaffio dei rinaldoni,
Per la musica verbale della Toscana,
Per la musica verbale della Corsica,
Per il ferro, che riluce in questi versi,
Per l’epico inverno,
Per il nome di un libro che non ho letto: Gesta Romanorum
Per Pietro Gori, innocente come i passerotti,
Per il prisma di cristallo e il peso d’ottone di un’antica bilancia,
Per le spine del riccio,
Per le alte mura di Portoferraio e i merletti dell’isola di Pianosa
Per il mattino a Sansone,
Per quell’elbano di quella poesia delle Lettere Migratorie
Il cui nome, come forse avrebbe voluto, ignoriamo,
Per Ovidio e Lucano, di Cordova,
Che prima dell’italiano scrissero
Tutta la letteratura italiana,
Per i geometrici e bizzarri scacchi,
Per la Tartaroccia di Polesi e la Borea di Galli,
Per Adamo ed Eva, che rinascono dagli scalpelli di Gobbo e Crestale,
Per lo Spirito dei Boschi di Lunisio,
Per il Coccosauro, che era troppo brutto,
Per il Seme di Pino Fabbri, che è la vita che viene,
Per l’odore medicinale delle ginestre,
Per il linguaggio, che può simulare la saggezza,
Per l’oblio, che annulla o modifica il passato,
Per l’abitudine, che ci ripete e ci conferma come uno specchio,
Per la mattina, che ci regala l’illusione di un inizio
Per la notte, le sue tenebre e la sua astronomia,
Per il valore e la felicità degli altri,
Per quest’isola, sentita nel salmastro o in una vecchia zappa,
Per Brignetti e Sestini, che già scrissero la poesia,
Per il fatto che la poesia è inesauribile
E si confonde con la somma delle creature come arte in natura
E non arriverà mai all’ultimo verso
E varia a seconda degli uomini,
Per Giuseppe Pietri, che chetò l’acqua,
Per Giuseppe Cacciò, che la valorizzò,
Per Gaspare Barbiellini-Amidei e il letto di Coppedè
Per Oreste del Buono e il letto di Coppedè di suo nonno Pilade della Piaggia sul quale fu concepito a Poggio tra puttini e puttoni durante la Marcia su Roma, e sul quale tornò a sdraiarsi settant’anni dopo nella casa di Campo lasciatagli dallo zio Teseo, mentre aspettava di dimagrire abbastanza per trovare spazio nella tomba di famiglia,
Per i minuti che precedono il sonno,
Per il sonno e la morte, questi due tesori occulti,
Per gli intimi doni che non elenco,
Per la musica, misteriosa forma del tempo,
Per l’arte, misteriosa forma dello spazio

[Riscritta da Angelo Mazzei il 29 aprile 2012]