Un compagno di cella

CHE COS’È L’AMOR

Quando uno è arrabbiato dice cose che spesso non pensa.
È una reazione spontanea,
è nell’indole di ogni uomo.
Quando uno è arrabbiato cerca le frasi che possono il più possibile ferire la persona alla quale sono dirette. In realtà, a conti fatti, a litigio terminato, sta più male la persona che ha ricevuto
quelle frecce avvelenate
o colui che le ha scagliate?

Lucio Anneo Seneca

Socrate, in cella, il giorno prima della sua esecuzione, si circonda degli amici migliori per raccontare loro – e soprattutto a se stesso – che non ha per nulla paura di morire. Uno non deve avere paura di nulla se ha la fede; la fede in se stesso e nella giustizia divina, che a volte fatalmente non coincide con quella umana.

Chiacchierando con gli amici, Socrate racconta che non si deve aver paura di morire, ché la morte è come uscire di prigione. L’anima eterna viene condannata alla vita terrena e incatenata alla natura attraverso l’abito di un corpo, da indossare fino all’ultimo respiro.

Anche nel filosofo dark-punk Sant’Agostino questa dimensione di prigionia e di colpa si rivela essere la sostanza della vita. Dopo una vita di decadenza e perversione Agostino si redime folgorato dalla fede e nel suo racconto questa chiarezza illuminata ci viene dalla sua scoperta radicale del peccato originale. Noi uomini nasciamo colpevoli.

Nei Seminari sull’Etica della Psicanalisi del 1960 Lacan rilegge con i suoi studenti alcuni concetti chiave di Freud alla luce di un loro sviluppo ulteriore e con la dovuta attenzione al rapporto diretto e profondo che rimanda tutto alle Tragedie Greche.

La colpa viene qui considerata come strutturale, ovvero: essenzialmente costitutiva e sostanziale all’essere umano. Il ruolo del senso di colpa agisce sempre in sottofondo sulla scena delle relazioni umane. Ecco che in Sofocle, nell’ultimo capitolo (sequel, ma scritto per primo) della saga di Edipo – alla quale come sappiamo Freud attinse a man bassa – si delinea la figura di Antigone, figlia di Giocasta, che dopo aver assistito allo scontro armato dei suoi due fratelli schierati uno contro l’altro per la difesa e la conquista della città cara a Dioniso, pretende di seppellire il “traditore” Polinice contro l’ordinanza del sovrano Creonte suo zio, seguendo quella che secondo lei è legge divina. Creonte invece vuole che il cadavere venga divorato dagli uccelli. Scoperta Antigone a gettare terra sul corpo morto del fratello, il re la fa inchiudere in una grotta. Ma Tiresia, con tono oracolare, dice al suo re di temere le feroci erinni come giudizio divino per aver agito contro le leggi degli dèi. Così Creonte fa liberare Antigone, ma quando le guardie entrano nella grotta la trovano appesa a una corda morta. Lei si era già impiccata, il figlio di Creonte che ne era innamorato si suicida, la madre di lui muore di dolore e lo stesso re non desidera altro anche lui se non morire.

Capirete perché Lacan ritenesse che Antigone, forse ancor più di Edipo, avrebbe meritato un ampio posto tra i miti greci riadattati alla psicanalisi. Certamente amore fraterno, amore per un uomo, amore per il divino, fede nella sua giustizia, morte come liberazione, catena di dolori e sensi di colpa, sono tutte cose che caratterizzano la tragedia sofoclea. Più di ogni altra cosa il sentirsi responsabili di non essere stati in grado di difendere e far valere la giustizia necessaria ed originaria. Una giustizia eterna, che precede la nostra nascita in terra, nascita/colpa, e che permane anche dopo la nostra apparizione effimera alla fine di ogni pena. La giustizia divina, Dike, alla quale 70 anni prima di Sofocle, arriva innanzi Parmenide a bordo di un carro dalle ruote stridenti, sulla soglia tra i mondi, nè al di quà né al di là della vita. La morte come liberazione dalla colpa innata.

In tutto questo non si può fare a meno di parlare di catharsis. Catarsi che in Freud è sul piatto già da subito, dagli inizi con Breuer, come la scarica d’un’emozione rimasta in sospeso.

[continua: sull’amore]

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