Erano le cinque del mattino di una notte d’agosto dell’86. Avevamo fatto una corsa dal 64 a Poggio io e Ale. Ricordo che ci eravamo fermati in piazza, le moto sul cavalletto e i caschi al manubrio, sedutici ai tavolini esterni del bar già chiuso, a ridere di quella e quell’altra curva, di come eravamo stati veloci. L’arsura della notte in discoteca si faceva sentire. Ci salutammo, io risalii in moto, col casco attaccato al gomito per il laccetto, a percorrere le poche decine di metri che mi separavano da casa. Arrivato alla curva di Mariuccio, che chiamano così per via del mi’ babbo, improvvisai una scappata alla fonte, quella di Napoleone, a dissetarmi. Tornando verso casa, sempre col casco al braccio, sotto il cimitero incontrai la macchina dei carabinieri di Marciana Marina. Pensai in un millisecondo a duemila cose, alle centinaia di mila lire della multa senza casco, e accelerai verso casa sperando che non mi avessero riconosciuto. Svoltai per la strada del Perone e m’inguattai dietro l’angolo sulla via del Bresci, a fari e motore già spenti. Non potevano vedermi, se non fosse stato per il mio amico Fritz. Fritz era un vero bastardo, un cucciolo gigantesco mezzo maremmano e mezzo tedesco, che quando tornavo a casa mi accoglieva con sontuosi festeggiamenti, mugolando, abbaiando a squarciagola, correndo a zig zag, saltandomi addosso. Gli appuntati non poterono non notarlo. Se ne accorsero, fermarono la macchina davanti la terrazza, abbassarono il finestrino e pronunciarono con aria scolastica il mio cognome: “Mazzei!”.
Risuonava proprio come la voce del professore che mi chiamava alla cattedra per interrogarmi il giorno che non ero preparato (ovvero sempre). Mi presero i documenti e redassero il verbale per guida senza casco, ma il peggio doveva ancora venire.
Un paio di giorni dopo il mi’ babbo mi chiama con quella faccia seria che metteva su solo quando davvero l’avevo combinata grossa e mi fa: “vieni, che ci ha convocati il maresciallo Viti, mi vuole parlare di una cosa grave.”
Io pensai: quante storie per avermi beccato senza casco sotto casa! Invece, arrivati in caserma, lui sempre gentilissimo e sorridente, stavolta aveva lo sguardo cupo, dal retrogusto di… “qui si va sul penale!” Non capivo, finché non ci spiegò, che essendo la moto di grossa cilindrata, la copertura assicurativa valeva solo per conducenti d’età maggiore di 21 anni, e io ne avevo neanche diciannove.
La moto era una stupenda Yamaha 600 XT, e non era mia. Pochi mesi prima avevo chiesto a Don Franco, il nostro parroco, di vendermela, ma lui mi disse: “A che serve vendertela, i documenti sono sotto il sedile, queste sono le chiavi, fai come se fosse tua, poi vediamo…”.
Quel giorno il maresciallo chiamò Don Franco e gli disse che sulla sua scrivania c’era una denuncia penale, non so se un mandato d’arresto, ma certo un reato grave, che chiamò “incauto affido”. Ovviamente il maresciallo, che era un galantuomo, strappò tutto, limitandosi a rivolgersi al mio babbo e dirgli: “Caro Mario, facciamo finta di nulla, di’ a tuo figlio di riconsegnare a Don Franco le chiavi della moto, e a questo punto, non possiamo fare più nemmeno la multa per la guida senza casco. Stavolta gli è andata più che bene, cerchiamo di non farne succedere più, perché finché si tratta del prete chiudiamo un occhio, ma non possiamo farlo sempre. “
Oggi, 35 anni dopo, ho messo nero su bianco questo ricordo, perché ieri caro Donfri la tua anima è tornata del tutto al divino e di te qui, per chi non vede bene, resterà solo un’epigrafe al cimitero, o una piazza, se ti verrà intitolata. Ma per chi vede nei pertugi della materia buia, tu sarai sempre qui, oste della nostra casa di Dio, le pareti e l’alto soffitto di “questa” chiesa sono intrisi del tuo spirito. Qui ci hai raccolti nella vita, nell’amore e nella morte. Qui ci siamo raccolti al Signore con te, che ci hai battezzati e ci hai fatto i funerali, te che ci hai sposati tutti.
C’è una piazza, il circolo, i bar, dove ci si incontra. Ma il vero cuore del borgo e della sua comunione è qui, dove ci si raccoglie. In piazza ci si trova con gli altri, in chiesa ci si trova se stessi. Qui non c’è quel senso di caotica libertà, i brusii, il passeggio, le risate. Qui c’è molto di più e che altrove non c’è. C’è l’ordine divino, la regola comune, il raccoglimento, il silenzio e la preghiera, ma sopra tutte queste cose sempre, qui c’è la comunione, il fare Uno tutti insieme, lo stare uniti e sentirsi uniti, persino purtroppo nel dolore più grande, quando ci lascia il tessitore del nostro legame più profondo.
Dicono che “morto un papa se ne fa un altro”. Questo proprio non mi pare il caso. Questo non è un ricorso storico. Don Franco è l’Ultimo Prete. Dopo di lui è difficile immaginare che ne venga un altro a prendere il suo posto. Don Franco non ha rimpiazzi. Questo borgo e la sua comunità oggi perdono l’auriga e dovranno concimare la loro comunione più che mai se non vogliono disgregarsi per sempre e smettere di esistere come comunità, come parrocchia.
Morto Don Franco non se ne fa un altro. Dovremo scavare fino agli estremi delle nostre radici, trovare risorse che non sapevamo affatto di avere, tirar fuori tutte le virtù rimosse, e farsi ciascuno pastore per gli altri, e pensarsi agnelli per se stessi.