vivere in Scandinavia
ETRUSCHI E IPERBOREI
La mia esperienza scandinava – nordica, dicono loro, “nordysk” – cominció con un trasferimento a Copenaghen nel 2005 dove rimasi a vivere ingegnandomi per otto mesi.
Notai subito che la mia casa, a pianterreno in Elmegade 23, aveva delle finestre enormi senza né tende né persiane. Semplicemente non c’era nulla da nascondere, perché gli scandinavi sono immuni dal nostro Senso-della-vergogna. Grazie a questa loro caratteristica non ci sono né persone vergognose a nascondersi né guardoni a sbirciarli. Questa cosa mi attrasse antropologicamente, anche se allora non conoscevo cosí bene la cultura etrusca, – la mia antica cultura perduta, – per cui non potevo fare paragoni.
La mia seconda esperienza scandinava non tardó a presentarsi sulla strada scritta del mio destino. Era il 2007 e c’innamorammo io e una bella svedese. Stavamo un po’ in Italia e un po’ in Svezia e andavamo in vacanza in Francia; la Francia affascina gli svedesi. È stato un anno e mezzo intenso e ho capito molte cose della loro visione del mondo.
L’ultima volta in Scandinavia ci sono stato con un viaggio che io stesso avevo organizzato nei dettagli con Emilia, per conto di AAE, APT, Elbafly. Facemmo delle “fiere elbane” con prodotti artigianali ed enogastronomici, a Copenaghen, Oslo e Stoccolma, per lanciare il “prodotto turistico” Elba.
Con questa ultima esperienza posso dire di aver completato il quadro delle mie esistenze scandinave, avendone vissuta la cultura in tre modi diversi.
Nei dieci anni successivi di buen retiro nella mia isola mi sono dedicato con sempre maggior piglio e affinata tecnica allo studio della protostoria, nella quale ho incontrato questo popolo ancora una volta, per come doveva essere tra i 5 e 3 mila anni fa.
L’archeologia mi ha parlato dell’inizio del III millennio e dello sviluppo dell’industria dell’ambra, che loro navigando i fiumi portavano dal Baltico al Mar Nero e all’Adriatico. La mitologia teogonica mi racconta di loro che attraverso il Mar Nero raggiungono l’Egeo e portano il culto di Apollo, il loro dio monoteistico delle arti – musica, poesia, medicina… – e del lume della ragione, che non faticó ad imporsi e andare “di moda” anche a sud.
Alcuni frammenti di rame del 1400-1300 a. C. trovati in Scandinavia provenivano da Ugarit (Siria) dove erano stati forgiati in lingotti a losanga con il minerale di Cipro. Non ci vuole molto ad immaginare che, in quella guerra mondiale che attorno al 1200 vide sconfitti i grandi regni che insistevano sulle terre dalla Grecia all’Iraq odierni, gli scandinavi-barra-iperborei dovettero dire la loro.
Un’altra cosa interessante della Scandinavia è la durata delle giornate. In inverno posso dire che il sole non l’ho mai visto distintamente e che l’alba era a metà mattino e il tramonto poche ore dopo. Ma psicologicamente forse più devastante è l’estate. Senza tende poi, è difficile dormire a luglio, quando è sempre giorno, e fa notte per poche ore, ma mai davvero buio.
Uno studioso indiano una volta si interrogó sul calendario etrusco. Perché i 60 giorni “dopo natale” non si nominano, e i loro due mesi non sono degni nemmeno di avere un nome? Questa storia ce la portiamo dietro ancora oggi, che il dodicesimo mese si chiama decimo – dicembre, come se i primi due non esistessero. Il nostro studioso ne evinse che questo calendario doveva essere nato in Scandinavia, dove per due mesi all’anno non sorge mai il sole. Io non sarei portato a fare l’equazione “etruschi=scandinavia”, ma certo è che potrebbero aver ottenuto l’arte di contare il tempo dai sapienti iperborei.
Questi certo dovevano avere delle conoscenze molto avanzate in vari settori, considerando la ricorrente figua del loro stereotipo di sapiente – Abaris – che appare a più riprese e in epoche lontane tra loro nella letteratura greca. Fu Abaris per esempio a prestare a Pitagora il suo “scooter a reazione” col quale dopo uno spettacolo a Taranto riuscí a farne un altro in Sicilia la sera stessa – il mito racconta che Abaris girasse il mondo a bordo del suo “vellino d’oro” andando a predicare e cantare perle di saggezza ovunque. La coscia stessa di Pitagora era d’oro, e faceva di lui un “figlio d’Apollo”, iperboreo appunto. Il fatto poi che Pitagora non fosse considerato greco dagli stessi greci lo dimostra il fatto che in alcune biografie (ne sono giunte a noi una manciata delle decine scritte da autori vari, compresi due testi scomparsi di Aristotele) è detto “figlio di un orefice di un’isola etrusca del nord”. Il buon Mnesarco aveva pure un nome, ma agli ellenocentrici (fallologocentrici, direbbe Sarah Koffman) non piace affatto sta storia che la fonte di ispirazione di Platone e inventore della parola “filosofia” e della scrittura “in corsivo” fosse di origine etrusca e/o iperborea.
Parlo di elleno-fallologocentrismo con tremenda cognizione di causa qui. Vi ho raccontato delle tende che non c’erano nella mia casa di Nørrebro. Ora vorrei tradurvi un passaggio di un’insigne studiosa austriaca, si chiama Petra Amann.
“Die Gemeinsamkeit der Frauen sei νομος;, Nacktheit nichts Anstößiges und Schamhaftigkeit in sexuellen Angelegenheiten unbekannt. Das Fehlen des (für einen Griechen normalen) Schamgefühls ist Landessitte bei den Etruskern, ihre Schamlosigkeit geht aber nicht auf bewußte Amoralität zurück, sondern stellt sich als Folg von Nicht-Wissen und fast kindlicher Unschuld dar.”
La comunità delle donne sia νομος (Legge); la nudità per nulla discutibile e la vergogna in materia sessuale sconosciuta. L’assenza della greca sensazione di vergogna è per gli etruschi costume, usanza, ma la loro spudoratezza non deriva dall’amoralità consapevole, ma si presenta come conseguenza della non conoscenza della vergogna e di una pura innocenza, quasi infantile.