La Questione della Tecnica è un concetto assai complesso formulato dal filosofo tedesco Martin Heidegger (1889-1976). Non è un’idea che possiamo risolvere con un bignamino, come si diceva ai miei tempi, o leggendo un piccolo saggio di Vattimo o Galimberti, che scrupolosamente ce la spiegano in poche ore. Per farvi capire che cosa intendesse H. con tecnica, cercherò qui di non spiegarvelo affatto, bensì, come mio solito metodologico, parlerò tenendo la questione in background.
Per non parlare della tecnica parlerò della memoria. La memoria può essere certamente anche squisitamente e completamente tecnica, come nel caso di un data storage, ma la memoria in origine è solo ed esclusivamente una funzione della psiche. Uso la parola psiche per sfuggire alla trappola di un’altra delicatissima millenaria questione, evitando di pronunciare qui la parola anima (soul) a discapito della parola mente (mind).
La rovina della memoria è la citazione. La citazione ha la stessa dinamica strutturale di un rigurgito. Nella citazione la sostanza riesce da dove è entrata, completamente trasfigurata, essa non si è lasciata acquisire. Quando la memoria non metabolizza la sostanza dell’ingerito finisce per espellerla integralmente, ma deturpata dalla propria contaminazione. La citazione non conserva la forma originaria del suo detto, risulta sempre un masticaticcio commisto ai succhi gastrici di chi la fa.
Ovviamente, c’è citazione e citazione. La differenza si può riassumere in maniera esemplare distinguendo le citazioni a pappagallo dalle citazioni par cœur – a mente, col cuore. Le prime sono quelle memorizzate con l’ausilio di una tecnica, le seconde invece sono quelle acquisite con tutto lo spirito del loro mondo originario. Sarebbe interessante aprire una parentesi sugli akousmata e i mathemata nella didattica pitagorica, ma questo lo lasciamo per dopo.
Nel Fedro di Platone, il Faraone fa notare a Thoth (Theutes), che la scrittura da lui appena inventata provocherà l’effetto collaterale di minare le capacità mnemoniche di chi ne farà uso. È facile capire che potendo prendere appunti non si è più costretti a far lavorare quella facoltà della psiche che chiamiamo memoria. Forse questo è accaduto davvero, parallelamente ai vantaggi che indubitabilmente la scrittura ha portato, non da ultimo attraverso l’ultima rivoluzione telematica (digitale).
Per i docenti e conferenzieri di ogni tempo è stato possibile raddoppiare l’efficacia della parola avvalendosi di una lavagna e un semplice gessetto. Oggi questo supporto è stato quasi del tutto soppiantato dalle slide e i proiettori. L’impressione però è che non ci sia alcuna consapevolezza degli effetti che queste tecnologie hanno sui relatori e sul loro pubblico. Innanzitutto la luce ipnotizza catturando tutta l’attenzione.
Chi parla non deve sforzarsi un granché per ripetere un discorso spesso imparato a pappagallo e comunque preconfezionato e indirizzato indipendentemente da ogni interazione col pubblico. Poi, la voce, la luce naturale, l’incrocio degli sguardi, sono tutti aspetti che escono avviliti dal loro passare quasi in secondo piano rispetto alla slide, la vera protagonista. Il relatore non fa più un discorso principale, ma le sue parole diventano pure e semplici didascalie a delle immagini ammalianti. Tutto questo per estremo, nel peggiore dei casi, sia chiaro.
Tutto questo per dire a tutti i relatori dei risultati delle loro ricerche, che: bisogna prendere coscienza delle slide, usarle e non farsi usare, rimanere protagonisti, con la voce, la psiche e la sua umana memoria, sempre al centro, sopra ogni slide. Altrimenti si finisce come uno spot pubblicitario invitava a non fare, riassunti da una triste sentenza: stupefattori con effetti speciali.
Socrate, citazione in inglese, free use, da slideshare.net