Forse ci troviamo nel bel mezzo di un paradigm shift epocale. Un modo di vedere le cose si sostituirà a quello che lo ha preceduto. Il sapere istituzionale si comporta come il surfista che corre dentro a un tubo. La cultura sa che c’è un dopo, ma non sa se uscirà dal tunnel in piedi sull’onda o se piuttosto non finirà ingoiata e sbattacchiata su e giù nei gorghi. Alcune discipline specialistiche uniscono le forze in un abbraccio interdisciplinare. Settori e metodi di studio nuovi ne emergono, dando vita a un nuovo gioco linguistico nel paronama scientifico, ancora troppo eterogeneo per essere individuato. Allora ogni scienziato avrà preso atto della contingenza delle proprie conoscenze e tutti quanti si ritroveranno in un’unica regione necessaria: quella del sapere che si sa da sempre. Questo in un certo senso è il grande salto tra un’epoca e l’altra, un periodo che – proprio come in un oggetto frattale – può essere un attimo, un giorno, un secolo, un millennio, a secondo del grado di risoluzione col quale ci predisponiamo ad osservare la realtà. Nella stessa geometria il grado di risoluzione cambia la realtà. Se noi infatti intendessimo misurare il perimetro costiero di un’isola, otterremmo misure diverse in base al grado di risoluzione che scegliamo. Prendiamo l’Elba. Si dice che le sue coste misurino 147km circa, ma se per misurarle ci avvalessimo di 100 chiodi e uno spago lunghissimo e li piantassimo alla desta costante distanza uno dall’altro forse otterremmo un valore più basso, mentre se usassimo un miliardo di chiodi ci servirebbe uno spago lungo migliaia di chilometri. Immaginate di voler essere ancora più precisi ed usare un righello microscopico per misurare tutto il contorno di ogni singola roccia, non vi si potrebbe certo accusare di non scientificità se con quel metodo otteneste una misura delle coste dell’Elba pari a miliardi di chilometri.
La Crisi della Scienza nel Dominio della Tecnica (update 2019)
Se l’avessimo misurata 12000 anni fa, nel passaggio dall’olocene all’antropocene, avremmo forse incluso anche l’isola di Pianosa, in quanto il livello del mare era più basso di circa un centinaio di metri e le due isole ne formavano una sola. E l’elbano e il pianosino di allora avevano un’identità comune. Pianosa è una sorta di isola del tesoro paleontologico, geologico, archeologico che offre testimonianze straordinarie di culture che lì hanno lasciato tracce, a partire dall’epigravettiano attraverso i millenni. Ci sono labirinti lunghissimi sottoterra che formano una rete che copre tutta l’isola. Grotte, tombe, cunicoli, usati come abitazioni, cimiteri, cantine, da uomini della pietra, della ceramica, dei metalli. Luogo ideale per un inter-ateneo tra università anche straniere per studiare la meraviglia della storia dell’uomo e della natura.
Lo stesso schema lo si potrebbe applicare anche a tutti gli altri ambiti della ricerca, in quanto in ogni osservazione – più o meno consapevolmente – noi adottiamo un grado di risoluzione che condiziona ogni risultato. A questo fattore va poi aggiunta la componente neurolinguistica. Ovvero il fatto che chi cerca, per esempio, oro, abbia inevitabilmente più possibilità di trovare oro di quanto oro troverà chi invece sta cercando argento. La storia è stata scritta e riscritta tutta quanta in questo modo. Non esiste un metodo privo di gradi di risoluzione, privo di predispozione a una determinata scoperta, privo di categorie convenzionali che subito dopo l’uso iniziale assumono l’aspetto di schemi fossilizzati, pregiudizi in automatico. Detto questo, appare chiaro come certe scoperte invece di scatenare giubilo finiscono per essere prese come scocciature o imbarazzanti testimonianze. Una mezza “scocciatura” nel panorama della preistoria d’Italia per esempio la rappresentano le civiltà preromane, recluse in paragrafetti che i ragazzi a scuola quando li studiano non sottolineano nemmeno. Quanto poco sappiamo dei Sanniti, dei Sabini, dei Veneti e dei Reti. Quanti voltafaccia “storici” si sono consumati di fronte alla “imbarazzante” grandiosità della cultura nuragica. In micenologia si finge che il mondo tra il XVI e il XII secolo avanti Cristo, per un abitante di Creta o del Peloponneso fosse chiuso in un “Lago” Egeo, lo dimostrano la maggioranza delle geolocalizzazioni dei toponimi, nomi di luoghi che gli studiosi piazzano sempre su una piccola mappa nella comfort zone del geograficamente “greco”. Non ci stiamo affatto azzardando a dire che sbagliano. Vogliamo solo ricordare come abbiano assunto l’Egeo a “grado di risoluzione”; fatto che facilita il lavoro ma preclude altri orizzonti interpretativi. Ne emerge una storia in cui le civiltà sembrano emergere dal nulla e risprofondare nel nulla di un deserto culturale che le circonda. Anche la scienza ha le sue responsabilità, essa deve tirarsi fuori dall’ingolfatura causata da un’esasperazione del concetto di specializzazione e settore di competenza, aprire le porte ai visitatori, che tanto i soli segreti che le sono rimasti da custodire sono quelli legati ai diritti d’autore e ai premi di pubblicazione. Non sarà certo il coraggio di incrociarsi con altri saperi a mandare in rovina gli studiosi di ciascuna materia. La rovina, nella quale ha già messo un piede viene dal suo essere condizionata ed orientata da un principio che non ha niente di sacro né divino: i quattrini.