Il dramma cappottato

Se non ci si ingannasse da soli, non si potrebbe vivere sulla Terra.

La frase s’affaccia tra parentesi buttata in mezzo a un dialogo surreale tra la smorfia del ritratto di nonno Andrey che sembra mormorare “Brancoli nel buio” al vecchio Anton, a questo rimbrotto paternalistico neurolinguisticamente indotto dalla presa di coscienza di non saper padroneggiare se stesso.

La parentesi si apre con Quelli gravemente feriti in guerra se gli si chiede come stanno dicono che non è niente. Non è niente – una sdrammatizzazione assoluta. Enantiosemantica che rovescia la tragedia in comica, esorcizza la morte sfigurandola da terrificante in comica. Forse in nome di un ideale più grande, di fronte al quale la vita umana del singolo non ha valore se non in funzione della vittoria della nazione sotto la bandiera della quale combatte.

Forse finirò di leggere questo Nidi di nobili di Turgenev. Quasi tutti i grandi romanzi russi dell’Ottocento stanno a me come Moby Dick a Leonhard Zelig, in un affettuoso e sincero legame bibliofilico, sempre differiti a un domani che non verrà mai, restano perennemente tra le letture da fare, fatte salve rarissime eccezioni – accidenti d’una rilevata (aufgehoben) cultura postmoderna dalla quale mi sono sapientemente affrancato.

Siamo ancora in grado di leggere i Russi per quello che sono? Possiamo evitare che l’immagine di un soldato moribondo in una trincea si misceli nel nostro imprinting a quelle dei soldati americani dei romanzi o del cinema anglosassone con le quali è stato riempito fino all’ultimo cluster neuronale della nostra corteccia mnemonica? Possiamo formattare noi stessi e ricominciare a scriverci sopra nuovi mondi?

Anche se potessimo c’è da chiedersi perché mai dovremmo farlo. Perché mai dovremmo farci riprogrammare la mente cancellando le gif tra le sinapsi dei vari Cattivi Russi, dalla tenebrosa spia senza cuore del KGB al pietoso homo roboticus Ivan Drago. Forse non c’è niente da cancellare. Anche perché cancellare tutti i nostri pregiudizi e tutto quanto quel che diamo per scontato (selbstverständlich) noi finiamo per cancellare noi stessi. Piuttosto, possiamo prendere coscienza, sapere di che pasta (bubble gum) siamo fatti e – parafrasando il buon vecchio Vasco Rossi tenere bene a mente che Non siamo mica gli americani che loro possono sparare agli indiani, ma al tempo stesso lo siamo. Siamo una pseudo-nazione, la cui sovranità è locale al 20%, europea al 30% e americana per il resto, le scelte che contano, come quella di chi deve fare il Presidente del Consiglio, senza golpe ferire.

Se non ci si ingannasse da soli, non si potrebbe vivere sulla Terra.

Scrive Turgenev dei soldati feriti gravemente che se gli si chiede come stanno rispondono che Non è niente. Niente è la nostra vita, che se non c’ingannassimo con futili ed effimeri progetti esistenziali, sarebbe invivibile, impraticabile.

Niente tutto quello che facciamo, che progettiamo, che costruiamo, di fronte a un destino che non ci appartiene, non perché sia nel disegno delle Moire o nei capricci degli Dèi, ma per la incontrollabile arroganza e mostruosa prepotenza dei sovrani veri. A ché metter su famiglia e risparmiare per un futuro migliore quando per l’avidità di pochi potrebbe non bastarci uno stipendio a pagare una bolletta, o non bastarci una vita sana e morigerata a sopravvivere ad un’esplosione nucleare?

Allora non ci resta che prendere atto di tutte le illusioni e gli inganni che ci sono stati narrati fin da bambini quando giocavamo ai cowboy e con un amorevole sorriso affrontare la vita e le sue vicissitudini esclamando di quando in quando un drammaticamente cappottato NON È NIENTE.

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