
Il 4 dicembre del 1975 muore Hannah Arendt, probabilmente la più grande filosofa del Novecento. Nata a Linden, in Germania, nel 1906 — come mia nonna Mela — in una famiglia ebrea della borghesia intellettuale, crebbe in un’infanzia intrecciata di fragilità e precocità: la malattia del padre, la forza di spirito della madre, e la consolazione dei libri, riparo e promessa di un futuro possibile. Da Kant imparò presto che il pensare è un dovere verso se stessi, una forma di autodisciplina e insieme di libertà.
A Marburgo incontrò Martin Heidegger, il grande filosofo tedesco, professore e amante, in una storia irregolare, piena di ferite e luci. Fu Heidegger a introdurla al pensiero dell’Essere come domanda radicale. E proprio da quella ferita ontologica — più ancora che dalla passione — prese forma buona parte del suo sguardo filosofico.
Poi la storia la inghiottì. Vide crollare la Repubblica di Weimar, l’ascesa del nazismo; e come ebrea fu costretta alla fuga, prima in Francia, poi negli Stati Uniti. Lo sradicamento, l’esilio, il confino: esperienze che non si limitano a cambiare una biografia, ma riforgiano lo sguardo. Si perde una patria per farsene un’altra, si lascia un mondo comune e ci si ritrova a costruirne uno nuovo. In quella rinascita forzata stanno le radici del suo capolavoro, Le origini del totalitarismo, tornato bestseller negli ultimi dieci anni: letto da democratici allarmati dall’elezione di Donald Trump, ma anche da repubblicani diffidenti verso Biden. Perché il punto, come Arendt avrebbe detto, non è mai il capo: è il sistema che inizia a marcire.
Arendt analizzò questi segni della politica che si degrada in menzogna, paura, tribalismo, dissoluzione del vero, manipolazione dell’opinione pubblica. Le sue opere restituiscono ciò che lei stessa ha vissuto sulla pelle: la violenza antisemita, la fragilità della civiltà, la labilità del confine fra verità e menzogna nella sfera pubblica, il destino dei migranti ridotti a ombre fra le nazioni.
L’ho sempre sentita vicina. Una vicinanza sigillata anni fa da un libro che mi regalò un caro amico australiano: The Life of the Mind. In quelle pagine mi sono riconosciuto. Perché forse anch’io, nella vita, non ho fatto altro che questo: cominciare. Ricominciare ogni volta da zero, senza accumulare. Arendt non lo dice esplicitamente, ma cominciare significa sempre anche rinunciare: lasciare alle spalle ciò che non si vuole fare più, ciò che non si vuole essere più.
Si passa la vita a dire cose fuori dal coro, a rompere automatismi, a portare alla coscienza delle persone il loro stesso modo di pensare, del quale spesso non sono consapevoli. Si cerca di aiutarle a far emergere ciò che sembra indicibile o indecidibile. Si sciolgono nodi, si aprono spiragli dove altri vedono muri. Si tenta di stimolare negli altri non l’obbedienza, ma il pensiero.
Ed è così che si genera qualcosa di nuovo. Ma ogni inizio è sempre un rischio. Anche ciò che potrebbe essere bene si manifesta come shock, come un phármakon platonico: cura e destabilizzazione insieme, terapia e veleno. Ciò che per noi è liberazione, per altri può essere violazione. Arendt lo sapeva bene: ogni azione è esposta al giudizio degli altri, e ciò che per noi è verità, per altri può essere ferita. La verità fa male.
Eppure senza questo rischio non c’è mondo, non c’è vita.
Il mondo nasce tra gli uomini, dice Arendt. Io ho provato ad andare oltre: non ci sono uomini senza mondo, perché gli uomini sono il risultato del mondo che si intreccia e si piega su se stesso. È lì che la parola prende corpo e genera realtà: il verbo si fa carne.
Qui Kant diventa essenziale. La Critica del Giudizio insegna che giudicare non significa applicare regole: è tentare di costruire un senso comune dove non esiste un criterio prestabilito. Arendt eredita da Kant questa fiducia radicale nel giudizio riflettente: è lì che prende forma la politica come spazio condiviso e fragile, dove gli uomini si comprendono senza essere identici e agiscono senza essere ostaggi del dominio.
In questo orizzonte, la sua vita activa acquista un significato ontologico: agire, parlare, cominciare significa immettere nel mondo la propria unicità, apparire come contributo irripetibile. Ma l’inizio è sempre esposizione.
Ed è proprio questa esposizione che apre il nesso con Agamben.
Laddove Arendt vede nella vita activa la possibilità di apparire nel mondo comune, Agamben mostra il suo rovescio: l’essere umano ridotto a nuda vita, esposto senza protezione al potere sovrano. L’Homo Sacer è colui che può essere colpito impunemente perché è stato escluso dalla comunità degli uomini: un’esistenza che appare, ma che non è riconosciuta.
Arendt ci ricorda che iniziare è ciò che crea mondo.
Agamben ci ricorda che chi appare troppo, o nel modo sbagliato, rischia di esserne espulso.
In questa tensione si colloca chi, come me, ha passato la vita a cominciare: a dire, aprire, rivelare ciò che altri preferiscono lasciare nell’ombra. Ogni cominciamento è un dono, ma anche un passo fuori dal recinto della sicurezza. Rompere gli schemi significa entrare in una zona liminare: quella soglia in cui la vita diventa insieme potentissima ed esposta.
E allora la domanda finale non è retorica, né amara:
nasce esattamente nel punto in cui Arendt e Agamben si toccano,
nel luogo dove la libertà dell’inizio incontra il rischio dell’esclusione.
Chi spende se stesso a cominciare per gli altri è condannato ad essere un Homo Sacer?
