Parmenide e gli etruschi

SCRITTI DI SUPERFILOSOFIA


Il fraintendimento cartesiano del frammento parmenideo “τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι”

Il celebre frammento 3 di Parmenide, τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι, costituisce uno dei passaggi più fraintesi della storia della filosofia occidentale. La struttura greca del testo è netta: τὸ αὐτό (“la stessa cosa”) indica l’identità ontologica tra νοεῖν e εἶναι, ossia tra l’atto del pensare inteso come intellegibilità e l’essere in quanto tale. Niente, in questa formulazione, autorizza una lettura psicologistica: νοεῖν non è il pensiero soggettivo di un individuo, ma la funzione cosmica dell’intelligibilità, ciò che Simplicio (in Phys. 86,3–5) definiva «l’attività mediante cui l’essere si rende conoscibile». Per Parmenide, infatti, l’intelletto non è un’operazione privata, ma il modo stesso in cui l’essere appare come tale; è un evento ontologico, non una facoltà interiore.

Il fraintendimento moderno ha origine in larga parte con Cartesio. Nel cogito ergo sum, il pensare è inteso come atto dell’ego, un’esperienza immediata della coscienza che diviene criterio di certezza ontologica. Il soggetto pensante è la premessa, l’essere ne diventa la conclusione. Tale movimento è esattamente opposto a quello parmenideo. Descartes assume implicitamente che pensare = essere all’interno dell’esperienza dell’io, trasferendo a livello psicologico ciò che in Parmenide è una legge metafisica universale. L’identità parmenidea, infinitiva e impersonale, viene così ricodificata come identità personale: «io penso, dunque io sono». Ma Parmenide non dice “ὁ νοῶν ἔστιν” (chi pensa è), bensì che νοεῖν e εἶναι sono lo stesso nel registro dell’assoluto; non riguarda un soggetto, concerne la struttura stessa della realtà.

L’errore cartesiano consiste dunque nell’aver interpretato l’identità tra Pensare ed Essere come identità dell’io pensante con il proprio essere, mentre per Parmenide l’identità si situa su un piano radicalmente impersonale e ontologico. Cartesio interiorizza ciò che in Parmenide è cosmico: traduce l’essere-pensabile in pensare-me-stesso. Ne deriva una frattura decisiva nella storia della metafisica occidentale: l’atto del pensiero, da manifestazione dell’essere, diventa fondamento dell’essere; e ciò inaugura la lunga stagione del soggettivismo moderno. In questo senso, la formula cartesiana non rappresenta la continuazione del pensiero parmenideo, ma il suo rovesciamento: non più «il pensare e l’essere sono la stessa cosa», ma «ciò che penso fonda il mio essere». Una deviazione che separa la sophía antica, aperta alla rivelazione dell’Essere, dalla filosofia moderna, centrata sulla certezza del soggetto.


Nella tradizione filosofica occidentale

Rispondere al Parmenide di Emanuele Severino non è mai stata mia ambizione. Ma fingere in italiano che si possa non farci i conti sarebbe arrogante e marginale. Certo avvicinarsi ma non totalmente tornare – alla soglia stessa del pensare, là dove il lógos non è ancora concetto ma presenza, vibrazione, necessità di luce. Severino legge in Parmenide l’atto originario in cui l’essere si rivela come incontrovertibile: ciò che è non può non essere, e il non-essere non è. Da qui egli fa derivare l’intera storia dell’Occidente come fuga dall’essere: una lunga deviazione che culmina nella tecnica e nel dominio del divenire. Viene da chiedersi a che serve leggere Severino se non basta una vita per finire di leggere Heidegger.

La forza di questa interpretazione è innegabile. Severino dialoga con l’oblio dell’essere inventato da Heidegger e vede nel rifiuto parmenideo del non-essere la radice di un’ontologia rigida e assoluta, incrinata però — secondo lui — dallo stesso Parmenide quando riconosce, nella sezione “fisica” del poema, i fenomeni mutevoli. Platone, nel Sofista, compie ciò che Severino chiama “il parricidio”: reintroduce il non-essere come differenza e inaugura la metafisica classica, destinata a identificare l’essere con l’ente mondano e a dissolverne l’eternità. Anche su questo modo di leggere Platone avrei da ridire.

Severino reagisce proponendo una nuova ontologia: non solo l’essere è eterno, ma tutte le differenze sono eterne. Il divenire non è un passaggio dal non-essere all’essere, ma l’apparire di differenze già in sé eterne. L’essere non è totalità vuota, ma totalità delle differenze immutabili.

Penso che anche questo ritorno a Parmenide resti all’interno del recinto concettuale che l’Occidente ha costruito per secoli. Parmenide, per me, non è un filosofo nel senso sistematico del termine. Appartiene piuttosto al mondo arcaico della sophía, una forma di coscienza unificata e intuitiva che precede la filosofia come discorso. La sua parola non è deduzione, ma rivelazione: una Dea parla, e l’uomo ascolta. Dire che “l’essere è e non può non essere” non è un argomento, ma un’esperienza.

Per comprendere questa esperienza, Parmenide va restituito al suo mondo: non quello astratto delle scuole, ma quello concreto del Mediterraneo del VI secolo, un mondo di esodi, conquiste, memorie arcaiche e popoli in fuga.


L’esilio come origine: Parmenide e la migrazione focese

In quell’epoca, l’Asia si agitava nel turbine delle rivolte che precedettero l’ascesa di Ciro. La celebre storia del sogno di Astiage, del bimbo destinato a regnare su tutta l’Asia e del mandato di Arpagone — incaricato di ucciderlo e poi complice del suo destino — non riguarda solo la nascita dell’impero persiano: è anche il preludio dell’esodo degli Ioni. Quando Ciro trionfò e Arpagone ottenne Lidia e Ionia, i Focei preferirono l’esilio alla sottomissione.

Pirete, padre di Parmenide secondo una tradizione minoritaria ma significativa, partecipò alla decisione. Focea fu abbandonata, i templi spogliati con rispetto, le navi preparate. Gli esuli approdarono sull’Isola d’Elba, dove la cultura etrusca aveva lasciato segni profondi: templi sulle alture, necropoli oggi scomparse, e un paesaggio carico di memoria rituale.

Fu lì, si dice, che nel 544 a.C. nacque Parmenide. Un temporale, dicono le leggende, illuminò il cielo: non simbolo poetico, ma eco di un mondo in cui cielo, terra e destino non erano separati. L’isola — con i suoi monti sacri, le foreste e i venti — scolpì in lui la capacità del silenzio, della visione e dell’ascolto.

Ma gli esuli non poterono restare: la pirateria greca contrariava gli Etruschi, e l’Elba fu attaccata. La comunità focese riprese il mare, tentò Rhegion, trovò conflitti, e infine risalì il Tirreno fino alla Campania etrusca. In un villaggio chiamato Velia — Elea — la diaspora si ricompose. Qui nacque la scuola eleatica.

In questo percorso, l’esilio non è solo un fatto storico: è la forma stessa del pensare parmenideo. La via che apre il poema è un viaggio. La porta tra giorno e notte è una soglia concreta prima che simbolica. La Dea è una voce che emerge in un mondo ancora capace di teofania.


La sophía mediterranea: un sapere che precede la filosofia

Le culture mediterranee arcaiche — dalle tombe a corridoio alle domus de janas, dai nuraghi alle piramidi — possedevano un’intelligenza non discorsiva: sintetica, partecipativa, immanente al mondo. Non scrivevano trattati perché il loro sapere non era analitico, ma vissuto. L’Occidente ha separato questo sapere dal mondo e lo ha trasformato in filosofia, logica, teoria. Severino tenta di restituirgli la sua radicalità ontologica, ma resta pur sempre nel dominio del concetto.

Parmenide non può essere rinchiuso nella filosofia perché non vi appartiene: la precede. È un sophós, non un filosofo. Vive ancora nella continuità di cielo e terra, nella presenza del sacro, nella rivelazione.

Ecco perché la sua distinzione tra la via della verità e la via dell’opinione non è un trattato epistemologico: sono stati di coscienza.
La verità è l’esperienza dell’intero.
L’opinione è la frantumazione percettiva del mondo quotidiano.
Il divenire non è illusione: è il modo in cui l’essere si manifesta al livello umano.


Parmenide, Eraclito e la totalità del reale

Il mondo è immobile nella dimensione eterna che la coscienza unificata può esperire; ma il mondo è mobile nella sua manifestazione. Eraclito mostra il flusso. Parmenide mostra la radice. Solo insieme danno la totalità del reale.

Per questo la cosmologia del poema — che Severino interpreta come concessione alla doxa — non è una caduta, ma una riconciliazione. Chi vede l’unità non cessa di vedere la molteplicità: la vede trasfigurata.


Oltre Severino: l’essere come paesaggio e presenza

Severino costruisce un sistema in cui l’essere è inespugnabile, eterno, innegabile. È una costruzione grandiosa. Ma Parmenide, per me, è più grande del sistema che lo interpreta. L’eterno è vero, ma non è tutto. L’essere è immutabile, ma si manifesta nel mutamento. L’Occidente non fugge dall’essere: attraversa processi nei quali si perde e si ritrova.

La sophía non è filosofia.
La verità non è dedotta.
La Dea non è allegoria.
L’esperienza unitaria non è concetto.

Parmenide non inaugura un sistema: apre un varco.
È un uomo che ha visto ciò che tutti possiamo vedere quando smettiamo di pensare nel modo consueto. È nato non in un’aula, ma in un mondo: un mondo di esodi, di montagne illuminate dai fulmini, di sapienze senza nome.

Attraverso quel varco possiamo ancora passare — non per negare il divenire, ma per ricordare ciò che siamo prima di esso.


Lascia un commento