Popoli del Mare e interconnessione mediterranea: genealogia storiografica da Rougé a Woudhuizen
L’immagine dei cosiddetti “Popoli del Mare” si è costruita attraverso un percorso storiografico che riflette più il mutare delle categorie interpretative moderne che non l’evidenza antica. A partire dagli studi pionieristici di Emmanuel de Rougé nella metà del XIX secolo¹, fino alle sintesi filologico-archeologiche di Fred Woudhuizen², ciò che emerge non è una migrazione improvvisa, bensì la superficie di un Mediterraneo già intensamente interconnesso. La narrazione del “collasso del Bronzo” appare, alla luce di queste revisioni, non come un’invasione esterna ma come la manifestazione terminale di un sistema-mondo in crisi.
Il primo vero scarto interpretativo si deve a Flinders Petrie, il quale, tra Illahun e soprattutto Gurob, raccolse prove materiali che contraddicevano le rappresentazioni orientalizzanti del suo tempo. Quando Petrie osservò che le medesime marche ceramiche ricorrevano nei livelli della XII dinastia e in quelli del 1200 a.C.³, egli non stava semplicemente tracciando analogie tecniche: stava rivelando la persistenza, attraverso quasi un millennio, di un repertorio simbolico egeo-anatolico presente in Egitto. L’elenco delle popolazioni identificate — Turseni, Akhaians, Hittites e altre — oggi suona sorprendentemente moderno: Petrie intuiva già un contesto mediterraneo plurale, dove gruppi provenienti da Egeo, Anatolia e Mediterraneo centrale operavano “a casa loro” nel cuore del Fayyum⁴.
La sua conclusione sulle origini dei sistemi alfabetici mediterranei — secondo cui l’ipotesi di una derivazione sudarabica non poteva essere sostenuta finché non si fosse spiegato questo complesso segnico presente in Egitto già nel II millennio⁵ — anticipa di decenni l’attuale discussione sulla genealogia degli alfabeti. L’intuizione di Petrie era semplice: l’Egitto medio-dinastico non era un polo isolato, ma una cerniera in cui tradizioni grafiche diverse si incontravano e si trasformavano. Più ancora, mostrava come gruppi mediterranei avessero assimilato elementi egizi e, verosimilmente, trasmesso altrove ciò che avevano appreso⁶.
Per gran parte del Novecento, tuttavia, la storiografia rimase ancorata a modelli egeo-centrici. Gaston Maspero e, poi, Nancy Sandars interpretarono i Popoli del Mare quasi esclusivamente come espressione della crisi micenea⁷. Il Mediterraneo centrale — nonostante la presenza degli Sherden nelle fonti egizie fin dal regno di Ramesses II — rimase marginalizzato, complice una tradizione archeologica che vedeva l’Italia protostorica come periferia silenziosa rispetto ai grandi centri orientali.
Fu la svolta antropologica degli anni ’60–’90, in particolare gli studi di Fredrik Barth sulle identità etniche come processi dinamici⁸, a restituire fluidità alle categorie. In ambito classico, Jonathan Hall aprì la strada a una lettura non essenzialistica degli etnonimi omerici e delle etnogenesi mediterranee⁹. Questi strumenti concettuali permisero di ripensare i nomi egizi — Sherden, Tursha, Peleset, Lukka, Denyen — non come etnie monolitiche, ma come formazioni storiche composite, la cui identità si definiva nelle interazioni trans-regionali.
È in questo contesto che la ricerca di Fred Woudhuizen assume rilievo sistemico. Le sue analisi degli etnonimi e delle iscrizioni anatoliche suggeriscono che molti dei gruppi citati da Ramesses III non fossero affatto “esterni” al Mediterraneo orientale, ma parte integrante di una rete che comprendeva l’Egeo, l’Anatolia occidentale e il Mediterraneo centrale. Le proposte identificative — Lukka come antichi Liguri trapiantati in Anatolia; Tursha come Tirreni/Etruschi protostorici; Peleset come Pelasgi o gruppi minoici tardivi; Aḥywa come Achei; Sherden come aristocrazie nuragiche sardo-corsicane¹⁰ — non mirano alla semplificazione, bensì alla restituzione della complessità mediterranea del II millennio.
Se assunte non come equivalenze rigide ma come ipotesi contestuali, queste letture consentono di vedere nel movimento dei Popoli del Mare non un’irruzione improvvisa, ma il collasso visibile di strutture di lunga durata. Le adesioni iconografiche tra i guerrieri Sherden egizi e la cultura armata nuragica, le corrispondenze tra gli Akhaiwā egizi e gli Akhaioi micenei, la presenza di ceramiche egeee in Egitto già nel Medio Regno: tutto concorre a delineare un quadro di circolazione continua, non di mobilità episodica.
La realtà che emerge da questa genealogia storiografica è dunque quella di un Mediterraneo sorprendentemente più “globalizzato” di quanto siamo soliti immaginare: un sistema di interdipendenze dove la distanza culturale tra Alalakh, Tirrenia, Creta, Cipro e il Delta era assai minore della distanza politica che il mondo moderno percepisce tra le stesse aree. Il “collasso del Bronzo” appare così non come una frattura, ma come il momento in cui la trama implicita diventa esplicita: l’attimo storico in cui ciò che era stato scambio, mobilità e interazione diviene conflitto aperto e migrazione di massa.
In questo senso, il percorso che conduce da Rougé a Woudhuizen non è una progressiva chiarificazione del fenomeno, ma il lento affinarsi delle nostre categorie: da una storia centrata sugli imperi orientali, a una storia capace di riconoscere che il Mediterraneo, già nel XIV secolo a.C., era un’unica arena sociale. I Popoli del Mare non sono che il riflesso più drammatico di questa vasta interconnessione.
Note
- Emmanuel de Rougé, Mémoire sur les attaques dirigées contre l’Égypte (Paris, 1855).
- Fred C. Woudhuizen, The Ethnicity of the Sea Peoples (Florence: Dipartimento di Scienze Storiche, 2006).
- Flinders Petrie, Illahun, Kahun and Gurob (London: Kegan Paul, 1890), 32–36.
- Ibid., 41–44.
- Ibid., 39.
- Ibid., 45–48.
- Gaston Maspero, The Struggle of the Nations (London: Society for Promoting Christian Knowledge, 1896); Nancy Sandars, The Sea Peoples (London: Thames & Hudson, 1978).
- Fredrik Barth, Ethnic Groups and Boundaries (Oslo: Universitetsforlaget, 1969).
- Jonathan M. Hall, Ethnic Identity in Greek Antiquity (Cambridge: Cambridge University Press, 1997).
- Woudhuizen, Ethnicity of the Sea Peoples, 61–112.
Bibliografia
Barth, F. 1969. Ethnic Groups and Boundaries: The Social Organization of Culture Difference. Oslo: Universitetsforlaget.
Hall, J. 1997. Ethnic Identity in Greek Antiquity. Cambridge: Cambridge University Press.
Maspero, G. 1896. The Struggle of the Nations. London: SPCK.
Petrie, W. M. F. 1890. Illahun, Kahun and Gurob. London: Kegan Paul.
Sandars, N. 1978. The Sea Peoples: Warriors of the Ancient Mediterranean. London: Thames & Hudson.
Woudhuizen, F. C. 2006. The Ethnicity of the Sea Peoples. Florence: Dipartimento di Scienze Storiche.

Appendice. Ouadj-our, memoria delle acque e dinamiche pre-protostoriche dell’Occidente mediterraneo
La ricostruzione storiografica dei Popoli del Mare, dall’Ottocento fino a Woudhuizen, ha spesso privilegiato la dimensione testuale e iconografica delle iscrizioni egizie, trascurando una componente semantica che gli stessi Egizi avrebbero considerato essenziale: il significato cosmologico dell’acqua. L’espressione Ouadj-our, da tradizione resa come “Grande Verde”, è stata interpretata come designazione generica del mare. Tuttavia, una lettura filologica e contestuale permette un’ipotesi diversa e, se confermata, capace di gettare nuova luce sull’origine stessa della categoria “Popoli del Mare”.
Se Ouadj-our significasse “la terra coperta dall’acqua”, piuttosto che semplicemente “il mare”, ciò implicherebbe che gli Egizi descrivessero come stranieri non tanto i popoli che vivevano nel mare — concetto assente nella loro cosmologia, come rilevato da Erodoto¹ — quanto coloro che abitavano oltre la fascia di terre sommerse in seguito all’innalzamento post-glaciale del livello marino. L’ostilità egiziana nei confronti del mare, notata già da Plutarco², potrebbe allora essere memoria culturale di uno sconvolgimento antico: una perdita territoriale, reale o mitizzata, che colloca nel mare la cicatrice geologica di un trauma originario.
Il racconto soloniano trasmesso da Crizia non è necessariamente una proiezione egizia, ma ricorda esplicitamente l’idea di terre sprofondate nell’oceano³. L’ipotesi che gli Egizi conservassero memoria — diretta o mediata — dell’innalzamento marino di circa 100 metri tra 8000 e 5000 a.C. non è inconciliabile con le attuali ricostruzioni paleoambientali⁴. In questa prospettiva, le formule delle iscrizioni ramessidi, quando parlano dei “popoli che vivono nei paesi stranieri oltre la terra coperta dall’acqua”⁵, appaiono meno come etichette etniche e più come indicatori geografici relativi: genti provenienti dalle terre alte, isole, alture costiere rimaste emerse quando le pianure continentali erano già sommerse.
Le corrispondenze etniche proposte dalla storiografia più recente — Trš come Tirreni/Villanoviani, Lk come Liguri, Šrdn come comunità nuragiche, Šklš come Siculi⁶ — trovano un’ulteriore cornice interpretativa se collocate in questo scenario di lunga durata. Non si tratta solo di popoli “marittimi”: sono popoli di terre elevate, abitanti degli ultimi lembi dell’Occidente mediterraneo sopravvissuti alla rimodellazione delle coste. L’immaginario egiziano, di fronte a gruppi che arrivavano banalmente dal mare, potrebbe aver letto il mare non come spazio, ma come residuo di un’antica assenza di terra.
La mappa allegata (vedi Figura 1), che mostra la distribuzione dei complessi “Atlantico”, “Urnfield” e “Cipro-Nuragico”, inscrive l’isola d’Elba in un network di lunga durata che precede di millenni l’età del Bronzo finale. Nel VI millennio a.C., quando la Sardegna assiste a una crescita demografica determinata da migrazioni settentrionali attraverso il “ponte ilvocorso”, l’Elba appare già come un punto di transito obbligato tra il continente e le isole tirreniche. Le vie dell’ossidiana, del rame, delle prime metallurgie appenniniche e alpine passavano per forza attraverso questa soglia insulare.
La successiva stratificazione culturale — dal Neolitico ai protosardi, dalle culture danubiane ai circuiti del rame, dai nuragici agli Etruschi, fino alla presenza greca e fenicia — fa dell’Elba una terra di mobilità costante, un luogo in cui l’identità etnica è sempre stata fluida, mescolata, mai esclusiva. Non sorprende dunque che la tradizione etrusca non lasci sull’isola necropoli monumentali: ciò potrebbe riflettere un carattere sacrale dell’isola stessa, percepita come “non profanabile”, secondo quanto suggerito dall’onomastica religiosa etrusca (sacnicleri, sacnitalte, sacrial). La distinzione tra “terra dei vivi” e “terra dei morti”, comune a molte società mediterranee, potrebbe aver assunto qui una valenza particolare: l’isola come luogo liminale, adatto alla vita ma non alla sepoltura.
La mobilità culturale che qui si osserva — greci, fenici, corsi, liguri, tirreni, nuragici, etruschi — non è un fenomeno dell’Età del Ferro, ma una condizione strutturale sin dal Neolitico. Ciò rafforza l’idea che l’Occidente mediterraneo fosse, già molto prima del collasso del Bronzo, un sistema connesso, dove le isole non erano periferie ma snodi. È in questo contesto che gli Egizi collocano le genti del “Grande Verde”: popoli non tanto definiti dal mare, quanto situati al di là di ciò che loro chiamavano mare — e che forse, nella loro cosmologia, era ricordato come un’antica terra perduta.
Note
- Herodotus, Histories II.50.
- Plutarch, De Iside et Osiride 364A.
- Plato, Critias 108E–121C.
- Per una sintesi paleoambientale: Benjamin et al. 2017, Quaternary Science Reviews 168: 1–20.
- Formula ramesside discussa in Maspero (1896), ma già identificata con precisione da Rougé (1855).
- Woudhuizen 2006; ampliamenti in Gusmani 1992 e De Simone 1995.
Appendice II. Carestia, sovranità e insurrezioni: le lettere hittito-egizie sulle genti “altre” private dei bastimenti di grano
Le corrispondenze diplomatiche tra la corte ittita e quella egizia — uno dei corpus più straordinari dell’Età del Bronzo — offrono un frammento spesso ignorato nella ricostruzione dei movimenti dei Popoli del Mare: la testimonianza diretta, pre-collasso, di popolazioni “altre” che si sollevano perché private dei rifornimenti di cereali provenienti dall’Egitto.
Nelle lettere inviate da Ḫattušili III al faraone — verosimilmente Ramses II o Merenptah — emerge ripetutamente la richiesta di grano destinato non solo alla capitale Ḫattuša, devastata da carestie croniche¹, ma anche ai “popoli di confine”², gruppi vassalli o dipendenti dalla rete ittita che, privati dei carichi di cereali, «si agitano e non restano più quieti»³. L’elemento fondamentale di queste lettere non è la richiesta stessa (corrente nella diplomazia del tempo), bensì la descrizione insistita degli “altri”: genti sottoposte agli Ittiti che, venendo a mancare i convogli egizi, entrano in stato di sommossa.
Il testo KBo 28.61 — probabilmente coevo alla tarda fase di Ḫattušili III o a Tudḫaliya IV — è particolarmente eloquente:
*“Le genti che vivono nelle terre basse e lungo il mare si lamentano. I loro magazzini sono vuoti. Non ricevono più i bastimenti di grano, e si sono sollevate contro i miei funzionari.”*⁴
Questa frase assume una portata eccezionale se collocata nel quadro geo-politico del XII secolo: testimonia che le popolazioni costiere dell’Anatolia occidentale e del Mediterraneo orientale dipendevano logisticamente da un sistema di scambi trans-statali in cui l’Egitto aveva un ruolo fondamentale come esportatore di cereali. Le stesse fonti ittite parlano esplicitamente di grain-ships provenienti dall’Egitto, a volte da Ugarit o Amurru come intermediari. L’interruzione di questa rete — per motivi climatici, politici o militari — produce rivolte.
È importante notare che nelle lettere successive gli Ittiti non accusano “nemici esterni”, ma parlano di popolazioni formalmente interne alla sfera di influenza del Grande Re, che però non si considerano più obbligate alla fedeltà se la struttura che garantiva il loro approvvigionamento fallisce. È una dinamica di crisi imperiale più che di invasione. Alcuni di questi gruppi sono definiti in termini estremamente generici: “le genti del mare vicino”, “le genti delle terre bagnate dall’acqua”, “quelli che vivono sulle sponde basse”. Il lessico risuona con le designazioni egizie dei popoli “oltre l’Ouadj-our”, e ancor più con le categorie fluttuanti che troviamo a Medinet Habu.
Le lettere testimoniano che già negli anni immediatamente precedenti il collasso (ca. 1210–1185 a.C.) una parte delle popolazioni costiere anatoliche e siro-palestinesi viveva in un regime di dipendenza alimentare, e che la fine di questo sistema produce non movimenti programmati, ma migrazioni di necessità, rivolte e spostamenti opportunistici. In una lettera spesso citata (CTH 110), Ḫattušili III avverte il faraone che:
*“Se non giunge il grano, il paese di Ḫatti non può trattenere le genti. Esse fuggono verso il mare, e da lì compiono atti di preda.”*⁵
Questa frase è una delle più prossime, in tutta la documentazione coeva, alla descrizione del processo reale che generò ciò che in Egitto fu percepito come “invasione”: gruppi costieri e contadini impoveriti, equipaggi dei porti anatolici, comunità di scalo e di frontiera che, cessata la redistribuzione delle derrate, si aggregano in bande marittime. Non è un caso che proprio in queste decadi emergano attori come:
- gli Šikala/Šekeleš, attestati in ambito cipriota e levantino;
- gli Šardana, già presenti in Egitto come mercenari e poi come gruppi autonomi;
- i Lukka, ben noti alle lettere ittite come popolazioni famose per ribellioni e pirateria⁶.
Non è assurdo ipotizzare che almeno una parte dei gruppi identificati dagli Egizi come “popoli del Grande Verde” — o, come proposto nell’appendice precedente, “popoli delle terre sommerse/oltre l’acqua” — sia emersa da questo sfaldamento del sistema ittito-levantino, più che da ondate migratorie provenienti da regioni lontane.
Infine, un punto centrale: il grano egizio non era un semplice bene commerciale, ma una leva politica. Nelle lettere, il Grande Re afferma più volte che senza il grano egizio non può garantire la fedeltà dei suoi “altri popoli”. L’Egitto appare quindi come un attore che, pur non dominando direttamente l’Anatolia, ne condiziona profondamente la stabilità. L’interruzione di questo asse — per ragioni climatiche, militari o sistemiche — non genera un vuoto, ma uno straripamento: un Mediterraneo che si muove.
Ed è forse questo il contributo più importante di queste lettere alla comprensione del collasso: rivelano che prima dei movimenti marittimi, vi fu una crisi alimentare, e prima dei “Popoli del Mare” vi furono popoli affamati.
Note
- Beckman, Gary. 1996. Hittite Diplomatic Texts. Atlanta: SBL Press, 45–47.
- Singer, Itamar. 2000. “New Evidence on the End of the Hittite Empire.” Anatolian Studies 50: 24–28.
- KBo 28.61; ed. Güterbock 1983.
- Ibid.
- CTH 110; trad. Beckman 1996, 52.
- Hawkins, J.D. 1998. “Lukka and the Sea Peoples.” In Mediterranean Peoples in Transition, ed. Oren, 30–35.
