Fraintendere e interpretare

Ovvero: Interpretare e fraintendere


Ogni interpretazione, ogni trasporto di senso, ogni atto epistemico è contemporaneamente un guadagno e una perdita.

Interpretare significa sempre attraversare un confine, e ogni confine attraversato lascia dietro di sé un resto. Nessun senso passa intero da un luogo all’altro: ogni volta che traduciamo, restituiamo meno di ciò che riceviamo, ma anche più di ciò che avevamo prima. La comprensione non è mai una conquista netta, ma un movimento ambivalente, una torsione che illumina e oscura nello stesso gesto. È da questa consapevolezza che nasce l’ermeneutica, non come tecnica o sistema, ma come esperienza radicale del limite.

È un limite che non separa, ma condiziona. Talete, nel dire che l’origine è l’acqua1, non ha ridotto l’essenza del mondo a un liquido elementare: ha compiuto il primo grande gesto ermeneutico della storia, portando l’indicibile dell’arché nell’ambito del dicibile umano, accettando la perdita necessaria che ogni passaggio richiede. E quando Eraclito parla del lógos comune che gli uomini non comprendono2, dice esattamente questo: il lógos è universale, ma la sua comprensione è parziale, sempre mediata, sempre filtrata da ciò che ciascuno è disposto a perdere. Il lógos non entra mai integro nei nostri orecchi; lo custodiamo solo a prezzo della sua metamorfosi.

Parmenide lo sapeva nel momento in cui la Dea gli disse che le opinioni dei mortali non contengono alcuna verità stabile3. Non perché siano false, ma perché sono interpretazioni: approssimazioni che salvano una parte del vero e ne sacrificano un’altra. Senza questa riduzione non potremmo parlare affatto, perché ciò che è, nella sua pienezza, non può diventare linguaggio se non rinunciando a parte della sua immensità. Platone porta questa intuizione alla sua forma più alta: quando afferma che le dottrine più importanti non si possono mettere per iscritto4, non sta negando il valore della parola, ma ricordando che la parola è sempre un taglio, un gesto che produce luce e ombra insieme. E nelle Lettere lo ripete con forza: ciò che conta non può essere comunicato interamente, perché ciò che si scrive cade fuori di mano, sfugge, si decontestualizza. La scrittura è già traduzione, e ogni traduzione è un sacrificio.

La modernità non ha fatto altro che dare a questa dinamica un nome più consapevole. Kant chiama fenomeno ciò che appare nel linguaggio della nostra mente, e noumeno ciò che non appare perché eccede ogni forma5. La perdita qui diventa struttura: non possiamo conoscere nulla senza perderne la sua parte intraducibile. Hegel, che pure celebra la potenza del concetto, riconosce che il vero è il tutto6, e che questo tutto non è mai dato in una sola proposizione: il concetto conserva solo ciò che riesce a portare avanti nella sua dialettica, lasciando cadere il residuo. Nietzsche allora radicalizza: non esistono fatti, solo interpretazioni7. E ogni interpretazione è una selezione: scegliere una prospettiva significa perdere altre possibilità, ma anche guadagnare una visione più profonda. La vita stessa è un atto di interpretazione che taglia e crea.

Heidegger, con la sua analitica del Dasein, mostra che comprendere significa già interpretare8 perché noi non possiamo che vedere il mondo attraverso le nostre possibilità. Ogni significato è un’apertura che comporta una chiusura. Il mondo che abitiamo è il mondo che riusciamo a lasciar entrare, ed è per questo che l’ovvietà — la Selbstverständlichkeit — è così pericolosa: ci fa credere che ciò che comprendiamo sia dato, mentre è solo il risultato di un lavoro interpretativo che abbiamo dimenticato di aver compiuto. Gadamer allora porta l’idea al suo naturale compimento: comprendere è fondere orizzonti9, ma ogni fusione comporta una rinuncia, una riduzione, una selezione. Non possiamo ospitare l’altro senza trasformarlo. La nostra comprensione non è mai neutra, mai totale, mai integra.

Benjamin vede in questa perdita la forma essenziale della traduzione10: la traduzione non trasferisce contenuti, ma fa emergere ciò che il testo originale non poteva dire da solo, e nel farlo lascia dietro di sé un vuoto. Derrida fa del vuoto una funzione11: il senso slitta, differisce, si sposta; ogni volta che lo catturiamo in una formulazione, è già altrove, già mutato, già mancante.

E allora non importa che interpretare sia impossibile nel senso dell’integralità: interpretare è necessario proprio perché è impossibile. Non smettiamo di interpretare a causa del limite, ma grazie al limite. Non rinunciamo alla traduzione perché tradurre comporta una perdita, ma perché è attraverso la perdita che acquisiamo un senso più denso, più ricco, più nostro. L’interpretazione non è la ricerca dell’identico: è il modo in cui il senso vive, si muove, si trasforma. Ogni volta che comprendiamo qualcosa, guadagniamo una luce nuova e lasciamo in ombra ciò che non possiamo ancora vedere.

Questa ambivalenza — guadagno e perdita inseparabili — non è un difetto del pensiero, ma la sua condizione più profonda. È il ritmo stesso della nostra relazione con il mondo: ciò che accogliamo lo accogliamo proprio perché lo limitiamo, ciò che comprendiamo lo comprendiamo proprio perché lo trasformiamo. Non c’è verità senza interpretazione, non c’è interpretazione senza perdita. L’essenziale è non confondere ciò che appare con ciò che è, non prendere mai il guadagno come totalità, non scambiare mai il frammento per l’intero. Pensare significa camminare tra ciò che riusciamo a portare con noi e ciò che inevitabilmente lasciamo alle nostre spalle. L’ermeneutica non è un modo di leggere: è un modo di vivere nel continuo equilibrio tra la conquista e la rinuncia.


Note

  1. Simplicio, In Aristotelis Physicorum libros quattuor, Libro I, commento a I, 17. «πάντα ὕδωρ ἐστίν» – “Tutte le cose sono acqua.”
  2. Eraclito, Frammento B1, Diels–Kranz I, 1951. «ὁ λόγος κοινός ἐστιν» – “Il lógos è comune.”
  3. Parmenide, Frammenti A, Diels–Kranz II, 1951. «οἱ δὲ ψευδόμενοι φαντάσματα ἀνθρώπων» – “Le opinioni dei mortali sono mere apparenze.”
  4. Platone, Fedro 274c–275a. «τὰ μὲν γὰρ ἀναγραφοῦντα, τὰ δὲ ἀνεγγράψασθαι οὐ δύναται» – “Le cose importanti non possono essere messe per iscritto.”; Lettere, Epistola VII, §341b.
  5. Immanuel Kant, Kritik der reinen Vernunft A19/B33. «Erscheinung ist, was uns durch die Sinne gegeben wird, Ding an sich ist, was jenseits der Erscheinung liegt.» – “Fenomeno è ciò che ci appare tramite i sensi; noumeno è ciò che è al di là dell’apparenza.”
  6. Georg W. F. Hegel, Wissenschaft der Logik, Prefazione. «Das Wahre ist das Ganze.» – “Il vero è il tutto.”
  7. Friedrich Nietzsche, Jenseits von Gut und Böse, §22. «Es gibt keine Tatsachen, nur Interpretationen.» – “Non esistono fatti, solo interpretazioni.”
  8. Martin Heidegger, Sein und Zeit, §12. «Verstehen ist schon Auslegen.» – “Comprendere è già interpretare.”
  9. Hans-Georg Gadamer, Wahrheit und Methode, Parte I, §1. «Verstehen ist Horizontverschmelzung.» – “Comprendere è fusione di orizzonti.”
  10. Walter Benjamin, Die Aufgabe des Übersetzers, 1923. «Die Übersetzung gibt nicht den Inhalt wieder, sondern lässt das hervorbrechen, was im Original verborgen bleibt.» – “La traduzione non restituisce contenuti, ma fa emergere ciò che nell’originale rimane nascosto.”
  11. Jacques Derrida, La dissémination, 1972, pp. 52–53. «Le sens glisse, diffère, se déplace.» – “Il senso scivola, differisce, si sposta.”

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