La più grande accusa alla politica italiana: la perdita di sovranità
L’Italia vive da decenni in un clima di sfiducia nei confronti della propria classe politica. Non si tratta solo di scandali individuali, ma di una percezione diffusa di limiti strutturali. Si accusa la politica di clientelismo, perché il merito sembra spesso subordinato alla fedeltà a un partito o a un gruppo di potere. Il nepotismo continua a segnare la vita pubblica, alimentando cerchie ristrette e impermeabili. Allo stesso tempo, l’assenteismo e la scarsa dedizione ai lavori parlamentari danno l’immagine di istituzioni poco operative. Lo spreco di risorse e i privilegi consolidati alimentano il distacco tra cittadini e rappresentanti. Non meno rilevanti sono incoerenza e trasformismo: alleanze variabili, promesse dimenticate, programmi contraddittori. La collusione con lobby e poteri economici trasmette l’idea di una politica più sensibile alle pressioni private che alle esigenze collettive. A ciò si aggiunge una scarsa trasparenza nelle decisioni, che rende opaca la dinamica del potere, e la mancanza di una visione a lungo termine, sostituita da interventi dettati dall’urgenza del consenso immediato.
Ma c’è un’accusa che supera tutte le altre, più radicale, più profonda: la perdita di sovranità.
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La questione della sovranità è il cuore della critica alla politica italiana contemporanea. Molti osservatori sostengono che il Paese non sia più libero di determinare da solo la propria strada, schiacciato com’è da condizionamenti esterni. La denuncia è precisa: metà delle direttive seguite proviene da Bruxelles, Berlino e Washington; l’altra metà da New York, Francoforte e Londra. In questo schema, l’Italia appare come un nodo di decisioni prese altrove, un esecutore più che un soggetto.
Da un lato, l’Unione Europea impone vincoli di bilancio e linee di politica economica che incidono direttamente sulle leggi finanziarie e sulla spesa pubblica. La Germania esercita un’influenza predominante in questa cornice, dettando il ritmo della disciplina fiscale e condizionando la gestione del debito. Dall’altro, Washington continua a rappresentare un punto di riferimento militare e strategico, soprattutto attraverso la NATO, determinando di fatto parte delle scelte di politica estera e di sicurezza italiana.
Sul versante finanziario, Francoforte, sede della Banca Centrale Europea, incide sul costo del denaro e quindi sulla vita quotidiana dei cittadini, mentre New York e Londra rimangono i centri decisivi dei mercati e delle agenzie di rating, capaci di spostare la fiducia internazionale nei confronti dell’Italia con un semplice rapporto o una variazione d’indice. In questo scenario, la politica italiana appare stretta tra vincoli esterni che ne riducono l’autonomia fino quasi a svuotarla.
Questa condizione ha conseguenze profonde. Significa che i programmi elettorali nazionali si trovano a essere compatibili solo entro margini strettissimi, perché i grandi assi strategici – dalla politica economica al posizionamento internazionale – sono già tracciati. Significa anche che i governi italiani, pur cambiando volto e colore, finiscono per adottare scelte molto simili, dando ai cittadini la percezione di una sostanziale impotenza. L’elettore vota, ma chi governa sembra poter muoversi solo dentro uno schema già predisposto fuori dai confini nazionali.
La perdita di sovranità, dunque, non è un’accusa generica: è la constatazione di un Paese che ha ceduto progressivamente margini di indipendenza in nome della stabilità internazionale e della fiducia dei mercati, ma che non ha ancora trovato un modo di compensare questo sacrificio con una reale voce in capitolo nelle istituzioni globali. È come se l’Italia fosse costretta a eseguire decisioni altrui senza poterle davvero influenzare.
Il paradosso è che questa condizione non è immediatamente visibile: non si manifesta con decreti stranieri imposti dall’alto, ma con regole di bilancio, pressioni economiche, alleanze militari e vincoli istituzionali che plasmano in anticipo il campo d’azione della politica interna. E proprio per questa invisibilità la perdita di sovranità diventa l’accusa più radicale: non è un difetto di singoli politici, ma un difetto di sistema. Non è un comportamento scorretto, ma una condizione strutturale che pone la politica italiana sotto tutela.
La critica finale è allora che l’Italia, mentre discute di clientelismo, trasformismo e privilegi, rischia di non vedere l’essenziale: i propri rappresentanti non sono più padroni della rotta. E senza sovranità, anche la migliore politica interna rischia di trasformarsi in amministrazione delegata.
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