ALLA FACCIA

La faccia dell’Altro. La faccia non è solo un’immagine. La faccia è epifania etica. Quando una faccia si rivolge a noi, ci interpella, ci chiede una risposta – nostro malgrado. Essa interrompe la nostra libertà naturale, ci chiama a rispondere, ci rende doverosamente responsabili.
La faccia non è superficie, ma fenditura nel tempo: luogo in cui l’evento dell’essere si arresta e si apre il varco alla domanda primordiale. È il punto in cui la carne diviene linguaggio, e il linguaggio non si lascia ridurre a parola, ma permane come urgenza muta.
Nell’istante in cui incontriamo una faccia, siamo già implicati in una storia che non abbiamo scritto. Essa porta con sé le impronte di sguardi passati, il sedimento di voci che non udiamo ma che premono sull’aria. Ogni faccia è attraversata da ciò che altri hanno detto, creduto, temuto; è un palinsesto di pregiudizi e di promesse, di sospetti e di possibilità.
Eppure, la risposta che essa esige non appartiene al codice delle reazioni istintive. Non è contrattacco, non è fuga. È una sospensione: l’atto di sottrarsi alla grammatica della violenza, e di restare esposti. Porgere l’altra guancia. In quell’esposizione si annida una forza paradossale, una delicatezza che disarma più di qualsiasi resistenza.
La faccia, in quanto epifania, non chiede di essere vinta o posseduta: chiede di essere riconosciuta. Il riconoscimento è la vera interruzione — non spezza soltanto l’azione, ma disintegra la trama invisibile che predispone le parti all’urto.
Come i pennelli degli artisti la faccia non si mostra mai per quello che è nella sua essenza. Essa è sempre il ritratto di sé stessa. Una maschera fatta di pennellate più dolci e di tratti più ruvidi. Ciascuno porta sul volto un quadro dipinto dagli altri. Sono amici e parenti, il proprio più prossimo, la circostanza della passione, l’affetto e l’invidia aggrovigliati in un vortice di estreme e mai autentiche lodi ed infamie. La descrizione, l’iconografia, il contatto mancato. La faccia è sempre qualcosa di occulto e segreto. Sta lì in bella vista, ma senza apparire.
Così, nel suo manifestarsi, la faccia custodisce l’irriducibile distanza che ci separa dall’Altro: distanza che nessuna vicinanza colma, e che nessuna ostilità dissolve. Essa è il volto dell’enigma, il sigillo di ciò che non può essere posseduto né spiegato.
Porgere l’altra guancia non è un atto di resa, ma il riconoscimento di questa distanza come spazio sacro. È concedere al volto il diritto di restare volto, di non essere ridotto a immagine consumabile, a funzione di un racconto già scritto. In questa sospensione si apre un varco: non verso la pace facile dell’accordo, ma verso il silenzio originario in cui l’Altro può finalmente essere.
E lì, nella tensione tra il visibile e l’invisibile, si rivela il vero gesto etico: custodire il volto senza tentare di possederlo, lasciarlo libero di apparire e scomparire, di restare nella sua segreta ed incommensurabile verità.

(AMDP 14/08/25)

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