Tutta colpa di Aristotele e Stendhal

di A.M.


Paziente:
Mi è sempre piaciuto viaggiare, e sono stato aiutato dalla fortuna di poterlo fare a lungo. In realtà la parola viaggio è ambigua. Si chiama viaggio un’avventura in solitaria, come andare via terra dall’Italia all’India con una R4 sgangherata e fermarsi a dormire dove si è stanchi. Si chiama altresì viaggio prendere un aereo in business class e farsi accompagnare da un taxi in un resort 5 stelle sulla spiaggia e rimanere sotto un ombrellone con un long drink alla frutta. Viaggiare è per estensione anche quello che facevo io, quando invece praticamente “traslocavo” per 2 o 6 mesi all’estero, e mi piazzavo lì a vivere come-e-con i locali, senza visitare attrazioni turistiche e monumenti e musei, ma piazze, bar, supermercati e discoteche. In questi particolari viaggi spesso mi iscrivevo a una scuola di lingua, a volte facevo qualche lavoretto e mi trovavo una fidanzata del posto. Paradossalmente tra le mete raggiunte non annovero quelle che forse oggi, che però ho smesso di viaggiare, vedrei più volentieri. Non è solo perché sono cambiati i miei interessi e i miei gusti, – per cui oggi preferirei la Turchia, l’Egitto, il Perù, la Cina, la Grecia, il Marocco, il Senegal… a Germania, Svezia, Australia o Stati Uniti – ma anche per una strana emozione della quale solo ora sono consapevole, forse, che consiste nel temere di restare sopraffatti dalla troppa meraviglia. Ho pensato di chiamare questo blocco preventivo – con una paralocuzione romantica – la Paura di Stendhal. Evitare inconsapevolmente di andare a visitare Saqqara, la Cappadocia, i Soldati di Terracotta, Cuzco, Creta o la Sardegna, per la paura di rimanere stordito e non essere più padrone di tornare a casa.

Terapeuta (Jung):
Un concetto affascinante. Potremmo considerarlo un’eccessiva apertura a quello che è immenso e che ha una forza archetipica capace di invadere e modificare l’intero essere. Non è solo il senso del viaggiare fisicamente in questi luoghi, ma il timore di una trasformazione radicale che potrebbe venire da loro. La Paura di Stendhal non è soltanto un’afflizione viscerale, ma una consapevolezza che alcuni luoghi, ricchi di energie archetipiche, non vanno semplicemente visitati, ma vissuti, e non lasciano più indifferenti coloro che li attraversano. È come se certi luoghi ti restituissimo non solo immagini, ma risposte che appartengono al tuo inconscio più profondo.

Paziente:
Esattamente, in quei luoghi ti aspetti di essere sopraffatto, di non riuscire a mantenere il controllo. È la paura di perdere la connessione con ciò che mi definisce come individuo. Ma questo non è solo per quei luoghi da “meraviglia”, in realtà accade più frequentemente quando cerco le radici, il vero contatto con la terra, e le storie che sono nate in essa. Questo mi riporta a un altro concetto. Se prima ero rapito dalla modernità, dall’avanguardia, dal progresso, ora… ora sento che c’è un ritorno, una chiamata più profonda. La realtà non è più quella che ci presentano le narrazioni contemporanee. Piuttosto è quella che emerge da questi antichi simboli, dalle civiltà che hanno cercato di fare della sacralità una forma di conoscenza totale. Non sono più attratto dalla superficie, dalla velocità del vivere moderno, ma dal radicamento, dalle cose che ci legano più di ogni tecnologia, ogni progresso, ogni illusione di futuro. Mi trovo a pensare agli Egizi, ai Sumeri, ai Nuragici, ai popoli che hanno intessuto una saggezza senza la necessità di moltiplicare il sapere, ma proprio per la capacità di vedere le cose più vere.

Terapeuta (Jung):
Questa riflessione suggerisce una profonda riscoperta di ciò che definisce l’anima del mondo. Da sempre, le civiltà più grandi sono quelle che sanno riconoscere il sacro come fondamento del vivere. Tu sei passato dal desiderio di velocità e di cambiamento, alla consapevolezza che la saggezza dei popoli antichi è un fulcro per rispondere alla domanda su chi siamo. Non è solo una curiosità storica, ma una ricerca di radici che possano rispondere alla domanda fondamentale che ci poniamo da sempre: “Da dove veniamo?”. La risposta, in un certo senso, sta in quegli stessi luoghi che, come suggerisci, potrebbero sconvolgerci per la loro potenza e per il loro mistero. Siamo parte di un divenire che si è formata su queste scelte, e proprio per questo non possiamo più fare a meno di questi legami profondi con l’antico.

Melanie Lacan Bion (assistente):
Questa riflessione è particolarmente interessante. Perché il passaggio dal “vivere in superficie” a “radicarsi in profondità” implica una comprensione non solo del passato, ma della trasformazione che quest’ultimo può attuare nel presente. La nostra identità, in fondo, non è che un nodo tra passato e futuro, e ogni civiltà che ha raggiunto il suo apice lo ha fatto avendo questa consapevolezza. Eppure, c’è un punto che ci sfugge sempre: il divino, l’elemento polimorfico mai univoco, gli dèi. Sono questi gli elementi che, in modo archetipico, risuonano dentro di noi, e solo quando li comprendiamo possiamo fare un passo in avanti nel nostro cammino di crescita. Come la Paura di Stendhal, questi sono temi che ci sovrastano perché toccano il nucleo più profondo della nostra esistenza.

Paziente:
Sì, il divino come flusso polimorfico, mai univoco, gli dèi. Non più un’entità fissa, ma un movimento, un cambiamento. Quello che ci sfugge è che la comprensione della divinità non implica solo la razionalità, ma anche l’accettazione del mistero, dell’irrazionale, dell’incontrollabile. Solo quando smettiamo di cercare risposte definitive e ci permettiamo di essere sfidati da queste potenzialità, possiamo riappropriarci di un senso vero della divinità. Noi non siamo che l’eco di questi dèi, che si manifestano nei nostri gesti, nelle nostre parole, nei nostri sogni, nella nostra arte.


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