IL NOME DELLA COSA

IL NOME DELLA COSA
di Umberto Ecco

Come una sorta di ragù di vacca e di gallina, coll’origano sugli allori, in un giubilo di sale in zucca e cipolla, e un po’ di scalogna – così io, minimo comune denominatore chiamo questa cosa. E dalla vacca e la gallina presto non resteran che Angelo, Lisa e Pina. Perché battezzare lava la colpa, ma non garantisce la permanenza. I nomi se ne vanno con le forme nel flusso magico di un metabolismo. E come nell’antica Grecia la legna che risale il fiume è anabolica e quella che lo discende – catabolica, così noi ci trasformiamo con le cose, e dei nostri nomi rimangono tracce nelle rubriche altrui o su qualche cosa che abbiamo scritto e firmato.

Il nome è la circoscrizione. Esso recide l’io dall’altro, una cosa da un’altra, il particolare dall’universale. Un’etichetta che riconosce il principio di asservimento delle parti al progetto di un effimero tutt’uno.

Noi non siamo informati, bensì formati, spellati e intonacati, incarnati e murati vivi, nell’edificio dell’istituzione, dentro le mura della (cir-)convenzione. Amputati, andiamo in giro monchi, nella rinuncia ad essere polpi, polipodi, che ogni formazione, istruzione ed educazione che riceviamo, è una mannaia che scegliendo esclude. Ogni tecnica e metodo, ogni ricetta e modello, sono totalitarismi che escludono ogni altra possibilità.

Non un ragù, non il ragù, ma sempre una specie di ragù, non di manzo e pollo, ma con i nomi non convenzionali ed inattesi, costringendo a riflettere, forse anche a ridere, quindi, in alcuni casi, a pensare. Chiamare le cose non con nomi dati per scontato, ma ribattezzarle ogni volta ad una nuova fede, ridefinirle, pensarne l’essenza, ironicamente ma scientificamente ricostruirle, regalare loro una nuova autenticità, riconsacrarle, liberarle da altri dimenticati peccati originali.

Come una specie di sugo di toro e di gallo, con il sale in zucca, e un po’  di scalogna nel destino.


P.S.

Abbiamo chiesto alla AI di recensire l’autore di questo testo, ecco il risultato:

Mazzei, autore di Il nome della cosa, manifesta uno stile che si distingue per la complessità e la densità concettuale, rendendo la sua scrittura adatta a lettori che apprezzano un linguaggio carico di metafore e riferimenti filosofici. Lo stile di Mazzei non è solo una riflessione linguistica, ma sembra voler entrare nei meccanismi profondi dell’identità e della percezione umana. Attraverso un uso sperimentale della lingua e una struttura narrativa che segue un flusso di pensieri, il testo crea una sorta di “metabolismo” delle parole e dei concetti, costruendo e decostruendo continuamente.

Un aspetto interessante del suo stile è l’approccio ironico e ludico con cui affronta questioni filosofiche come l’essenza delle cose e il ruolo dei nomi. Il linguaggio di Mazzei sembra voler sfidare il lettore: lo invita a riflettere sul significato ultimo del linguaggio e sul potere trasformativo dell’atto del nominare, che, come lui stesso sottolinea, non può garantire la “permanenza” né l’identità fissa di una cosa. Le metafore culinarie — dal “ragù di vacca e gallina” allo “scalogno nel destino” — introducono una fisicità giocosa e sensoriale, attraverso cui la lingua si fa corpo, mentre l’identità personale si dissolve nella pluralità.

Mazzei sfrutta la lingua per indagare il paradosso della formazione e della trasformazione: le immagini vivide e i rimandi all’anabolismo e al catabolismo propongono una visione della realtà come processo in continua metamorfosi, dove anche i nomi, lungi dal fissare, si fanno “sugo” di significati transitori. Il linguaggio, per Mazzei, diventa dunque un veicolo di libertà e di sfida ai “totalitarismi” concettuali, ai quali oppone l’idea di una continua rinascita semantica, il “ribattezzare” che diviene atto creativo.

Inoltre, l’idea che ogni nome sia un atto di circoscrizione — e quindi di riduzione e amputazione — rivela una dimensione critica verso la società, in cui Mazzei sembra avvertire la limitazione imposta dall’educazione e dalla cultura, che formano e deformano l’individuo. Le sue riflessioni sull’educazione come “mannaia” denunciano una visione in cui l’identità personale viene costretta entro limiti convenzionali.

In sintesi, lo stile di Mazzei mescola il filosofico con il sensoriale, l’ironico con il critico, ricercando una lingua viva, che non solo descrive ma costruisce il reale in un gioco continuo di definizione e ridefinizione. La scrittura di Mazzei, in ultima analisi, è una sfida al lettore: lo invita non solo a interpretare ma a partecipare, a riconsacrare le parole e a esplorarne i significati, con uno spirito di scoperta e di rinnovamento.

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