di Fausto Schlagen
L’elemento divino come antidoto al positivismo e alla tirannia della tecnologia
Nella filosofia antica, il pensiero di figure come Ferecide di Siro, che coniugano mythos e logos, si rivela una chiave di lettura fondamentale per ripensare la condizione umana contemporanea, segnata dal positivismo e dalla tecnologia. In una società dominata dalla razionalità strumentale, in cui la conoscenza è spesso ridotta a misurazione e calcolo, il recupero di una dimensione mitica e simbolica può rappresentare una via d’uscita, aprendo l’essere umano a una verità profonda che trascende la semplice logica matematica.
Ferecide, con la sua narrazione cosmogonica e la descrizione di Zeus come principio ordinatore, rappresenta un ponte tra il mondo mitico e quello filosofico. La sua visione del divino come archè – non mera cronologia di eventi, ma ordine profondo che regge il cosmo – evidenzia un approccio non riduzionistico alla conoscenza. Invece di relegare le immagini mitologiche al solo racconto, Ferecide riconosce in esse una verità ontologica, una “storia vera” che non appartiene solo al passato, ma anche alla natura dell’essere e del divenire.
La figura di Zeus, come supremo ordinatore, non si limita a spiegare l’origine del cosmo: essa ne sancisce il valore. Attraverso Zeus, il mondo acquisisce un senso che non è definito dal semplice sviluppo cronologico, ma dall’idea di un ordine che è immutabile, eterno e divino. Così, Ferecide mostra come il mito, se integrato in una prospettiva filosofica, possa rivelarsi una fonte di sapienza. Non è una mera illusione o proiezione umana, ma una realtà profonda che porta il pensatore alla radice delle cose.
La questione dell’essere e della verità è affrontata anche dai filosofi contemporanei che, come Martin Heidegger, Henri Corbin e Gaston Bachelard, sottolineano l’importanza di una dimensione simbolica e immaginale. Heidegger, in particolare, rivela l’urgenza di una riflessione che non separi più mythos e logos, ma li veda come manifestazioni complementari della verità. In quest’ottica, il mythos diviene la voce originaria dell’essere, quel linguaggio primordiale che offre un accesso diretto e immediato alla realtà, al di là dei limiti della ragione tecnica e analitica.
Nella “metafisica della tecnica”, Heidegger denuncia come la modernità abbia progressivamente dimenticato l’essere, focalizzandosi esclusivamente su ciò che è misurabile, utilizzabile, controllabile. In questa ossessione per la tecnica, la dimensione mitica è relegata al passato o persino ridicolizzata, eppure, come evidenziano pensatori come Ferecide, essa conserva un potenziale salvifico: la capacità di mostrare ciò che non può essere espresso con il linguaggio dell’oggettività.
Henri Corbin, con la sua nozione di “mundus imaginalis”, unisce la dimensione simbolica e spirituale in una visione del cosmo in cui il divino non è astratto, ma palpabile, reale. Per Corbin, come per Ferecide, l’immaginale non è finzione, ma una realtà che si inserisce tra il mondo sensibile e quello puramente intellettuale, dando vita a una percezione più ricca e completa del cosmo. Questa “terra celeste” si offre come una via alternativa alla mera oggettività scientifica, ripristinando la funzione salvifica del simbolo e del sacro.
In un mondo dominato dalla scienza positiva e dalla tecnica, la dimensione immaginale di Corbin costituisce un luogo di resistenza, una “geografia spirituale” dove il pensiero tecnico non può penetrare. Essa offre un rifugio per l’anima, dove l’uomo può riscoprire la propria interiorità e sfuggire alla pressione della misurazione e della quantificazione che dominano la cultura moderna.
Gaston Bachelard, esplorando il potere simbolico degli elementi naturali, dimostra che questi non sono solo materia, ma archetipi connessi all’interiorità dell’essere umano. Ogni elemento risveglia una saggezza profonda, radicata nella natura e nel cosmo, che ci collega a una dimensione di verità oltre la logica strumentale. Ad esempio, il fuoco non rappresenta solo un fenomeno fisico ma una realtà simbolica che esprime la trasformazione, l’energia creativa e la rigenerazione dell’anima. Questa prospettiva ci ricorda che l’universo non è solo una realtà esterna da analizzare, ma una fonte di insegnamenti spirituali.
In una visione simile a quella di Ferecide, per cui il cosmo ha una struttura ordinata e significativa, Bachelard riconosce la natura come depositaria di un linguaggio archetipico che l’umanità può interpretare per riscoprire se stessa. Così, l’universo e i suoi elementi non sono semplici oggetti da dominare, ma parte di un ordine che può guidare l’essere umano verso un’esistenza autentica e armoniosa.
Di fronte alla crisi del nostro tempo, caratterizzata da un esasperato positivismo e dall’assolutizzazione della tecnologia, la visione di questi pensatori rappresenta una via di salvezza. Il richiamo al divino, inteso non come dogma ma come principio archetipico e ordinatore, offre una prospettiva che va oltre la logica del dominio e della produzione, proponendo un ritorno a una saggezza antica e universale.
Il divino, come mostrato da Ferecide, è un ordine che può stabilire la giusta misura per l’essere umano, salvandolo dall’alienazione tecnica e dall’ossessione per il controllo totale. Questo elemento divino è l’antidoto a un mondo ridotto a “cosa”, recuperando invece il valore del cosmo come “creazione”. Connettendoci a questo ordine, possiamo ritrovare un senso di appartenenza all’universo e riconoscere una saggezza che trascende i limiti della scienza positiva.
