Gli scrittori, potremmo dire, sono un’invenzione. Esistono solo uomini e donne, mossi da un desiderio ardente di scolpire il linguaggio, tentando di gettare nel mondo frammenti di capolavori, dispersi in quell’oceano senza confini di flutti tempestosi e correnti contrarie, le cui sponde si allungano all’infinito, tanto che nessuno ha mai potuto dire con certezza dove inizi la terra e finisca il mare.
La questione che ci riguarda, però, non è tanto se io sia d’accordo con Agamben (come quasi sempre accade), o con Cacciari (come quasi mai), o con quel “Bimbomarx” o chiunque egli sia (e qui meno che mai). La vera questione, semmai, è quella del kairos, del tempo opportuno, di quel “timing” che gli americani tanto amano evocare. È questo il momento giusto per dire certe cose, come fa Agamben? O forse, dovremmo piuttosto tacere?
Qui la filosofia è chiamata a uscire dai boschi degli spiriti, a spogliarsi dei panni della lupa e a mascherarsi da pecora. Ma proprio nel momento in cui la filosofia, travestita da ciò che non è, si vede costretta a prendere parte, essa si espone ai suoi errori più storici. La filosofia che si confonde nel gregge, che fa “bèèè” con le altre pecore, finisce per essere tosata e condotta al macello.
Questa riflessione si collega, inevitabilmente, al rischio che la filosofia corre quando il suo tempo è mal giudicato: essa non solo perde il suo ruolo critico, ma diventa gregaria, un pastore che si smarrisce tra le sue stesse pecore. In questo, Agamben ci mette in guardia con forza, mostrandoci come il pericolo non risieda tanto nella parola, quanto nella sua tempistica.
Se mai esistesse uno scrittore, sarebbe un serial killer di ogni parola, un distruttore consapevole del loro inevitabile abuso.
