15 ottobre 1923, 1986, 2023
L’INVISIBILE E IL GIUDIZIO
Passeggiavo per Parigi in viaggio da solo, diciannovenne, come un barone rampante saltavo da un café a un metrò senza essere visto, senza che nessuno potesse sapere chi fossi. Le mie presunte colpe, il retaggio della mia genealogia, la mia ignobiltà, restavano a casa. Qui, tra l’odore dei croissant e i profumi di ragazza, l’aria aveva il gusto della conquista della libertà. Ero l’uomo invisibile, in un negozio di fiori di Danfert Rochereau, a pochi passi senza saperlo, dalla casa dove Calvino aveva abitato, facevo l’amore.
IL LABIRINTO E LA RETTA VIA
Senza GPS, senza telefonino, in quel 1986 in giro per Parigi con in tasca la carta della città. Le linee del metrò, i nomi delle strade, i numeri degli arrondissement. Tutto a Parigi è diviso in arrotondamenti, che si attraversano come in un labirinto, nel buio dei treni sotterranei, per la meraviglia della luce in cima alle scale fuori dal metrò. Ci si guarda attorno in un delizioso spaesamento, come a dire: ecco com’è questo quartiere, certo non come me lo aspettavo. Noi ci illudiamo di voler conoscere il percorso, di voler percorrere la strada più breve, invece quello che ci regala emozione ed illuminazione è il labirinto, il metrò, che ci fa andare in un posto senza farci vedere come ci siamo arrivati, e all’uscita è sempre e di nuovo un’illuminazione.
IL NULLA OÙDEN
Ovunque c’è una presunzione di futuro commista a una memoria storica. Altrove spesso manca il ricordo vivo di che cosa intendessimo dire originariamente con le parole che oggi usiamo. Nulla. Abbiamo dato una consistenza al nulla, dimenticando che significa no-unulo, senza uno, nemmeno uno. Oydé eìs, ΟΎΔΈ ΕΪΣ, ΟΎΔΈΝ. Nemmeno uno. Ad ogni angolo però, come a Roma o in altre città della memoria, qualcosa sta lì come un segnale ad indicarci i nostri errori e costringerci a ricordare. Non c’è futuro se non si fanno i conti con il proprio passato. Quando vi dicono di cogliere l’attimo e di vivere il presente, vi stanno chiedendo un Alzheimer volontario, vi chiedono di dimenticarvi chi siete e dove vi trovate, come un viaggiatore di un metrò d’ inverno che sbagli fermata e si perda in una doppia meraviglia nella luce di un luogo ignoto.
IL POTERE EFFIMERO DEI GRATTACIELI
In una certa illusione di democrazia e di progresso, in bilico tra una pellicola di Jacques Tatischeff e una di Luc Besson, così ci muoviamo invisibili sovrastati da effimeri segni di potere. I grattacieli ci guardano con potenza mai vista da altezze mai raggiunte, e mentre ci gridano in faccia quanto sono potenti, come satiri itifallici immortalati in una fredda pietra, ci sussurrrano che non staranno ritti più di un par di secoli. Il potere che si confessa, che si autoinfligge il cilicio dell’obsolescenza. Non è che non sappiamo più costruire usque ad aeternum, ma sembra che ci si accontenti di dominare lo hic et nunc, con assoluta noncuranza di tutto quel che presto ci crollerà sulle teste.
IL MONDO È UN’ENCICLOPEDIA, UNA BOTTEGA DEI FORMAGGI
Il mondo allora non è più uno engagement, non è una questione degli intellettuali come fare per cambiarlo. Beaudelaire disse monotonico: Parigi cambia. E questo è quanto. Non siamo certo noi con le parole a rifare il mondo e le città, noi possiamo solo descrivere. Usiamo il mondo come un catalogo di cose alle quali sono stati dati dei nomi, e cerchiamo di capire da dove nascono la dimenticanza, la confusione e l’ignoranza, nel dialogo tra ciò che è scritto e chi lo legge. Ecco cosa devono fare gli intellettuali, cercare il tempo perso e trovarvi i sensi smarriti del linguaggio che ci illudiamo di usare e dal quale invece siamo usati, come sponde, argini di un fiume che non sanno resistere alla piena. Se di ciò che non si può dire bisogna tacere, bisogna però parlare di tutto quello che ci si è dimenticati di dire.
I SIMBOLI COME ARCHETIPI DI UN INCONSCIO COLLETTIVO, LA NASCITA DELLA MUSEALIZZAZIONE DIFFUSA, L’ESPOSIZIONE UNIVERSALE
Oltre che luogo che offre l’invisibilità all’individuale, la città di Calvino è anche esposizione totale dell’universale. Essa mette in mostra tutte le spezie che conosciamo, tutti i vini, tutti i formaggi, come una monade del mondo, raccoglie i frutti del suo colonialismo, prima, della globalizzazione, oggi, che in francese peraltro si chiama mondialisation, e li riporta all’interno delle sue mura virtuali. Urbis et orbis, la città si fa specchio del mondo, labirinto di sorprese, viaggio orfico, fuori e dentro il metrò, tra le immemori rovine e gli scheletri di Lutaetia sui quali cozzano le pale delle ruspe, e i grattacieli di Paname che vi si costruiscono sopra, scale wittgensteiniane coi vetri a specchio to heaven da arrampicarcisi per poi buttarle giù.
(A. M.)
