AITHALIA VS ALALIA (parte 2)

Le ceramiche del Museo di Marciana parlano chiaro. Attorno all’anno 1000 avanti Cristo una cultura commerciale ed artistica abita tanto le vette delle montagne elbane quanto la regione del fiume Po. Sí, certo, stiamo parlando proprio della cosiddetta cultura “villanoviana” in perfetto stile “Grotta di San Giovanni” a Bologna.

Non stiamo necessariamente parlando di un unico popolo, certo sappiamo che – genti egee e dei dintorni eurasiatici, pochi secoli prima bazzicarono tanto l’Arcipelago Toscano quanto le foci del Po; ma questo non implica che si definiscano tutti indistintamente “greci”.

Sulla parola “greco” bisognerebbe aprire una lunga parentesi. Qui ricorderemo soltanto che essa viene dal latino graecus che a sua volta viene dall’etrusco CREICE. E poi brevemente accenniamo al fatto che la lingua etrusca non può essere più giovane di quella greca classica. Piuttosto coeva, se non addirittura antecedente, – perlomeno in terra egea, – al cosiddetto miceneo o lineare b.

Questo indizio ci deve far prendere in considerazione due ipotesi:

Ipotesi di Libeccio.

L’ipotesi scherzosamente definita di Libeccio, prevede che i Liguri, e nel loro piccolo i Corsi, e nel loro ancora più piccolo gli Elbani (Ilvates?) si siano spostati in direzione NE.

Ipotesi di Grecale.

L’ipotesi prevede che i popoli del Po siano scesi verso SO.

Comunque siano andate le cose restano al momento inconfutate le tesi che i Castelli Patrizi di Procchio, San Martino e Volterraio (?) siano stati fondati o “migliorati” dopo il 540 a. C. a seguito di un parziale o totale spopolamento delle vette del massiccio del Capanne, del costone che attraversa Colle Reciso e di quello di Cima del Monte.

Gli Elbani e chi stava all’Elba probabilmente traslocarono dai 400 metri sopra il mare in zone dai 400 metri in giù.

La stessa “arcaica” necropoli di Poggio (sotto il Palazzo dove nacque Oreste del Buono) sembra attestare attraverso una coppa ionica B2-3 (recuperata da Adembri e studiata da Maggiani) il suo incipit nella stessa seconda metà del VI secolo a. C.

Non ci pare azzardato accostare questi elementi antropologici a quelli archeologici e studiarli con il confronto anche della letteratura classica.

Gli storici antichi parlano poco della Battaglia di Alalia. E quando ne parlano non descrivono i luoghi depredati o attaccati dai foceensi prima del 540 a. C. E neanche parlano in verità di un periodo di tempo, ma solo si soffermano sull’episodio dello scontro navale.

Ma non ci si scanna a quella maniera. I famosi sensi di colpa dei ceretani dopo Alalia divennero internazionali. Erano talmente affranti dall’aver trucidato tutta quella gente che i propri templi non bastarono a saziare la loro sete di perdono. Ci volle Delphi e chissà quanti doni, oltre a dei meeting di atletica annuali dedicati alla memoria di quei morti (nemici per un giorno).

Certo che se ci avvalessimo di un po’ di buona psicologia, potremmo facilmente capire che chi prova un senso di colpa collettivo cosí forte di certo non ha ucciso per divertimento. La provocazione deve essere stata altrettanto forte. Se non sapete già tutto di Alalia consigliamo di leggere Michel Gras, che in un delizioso saggio elenca tutte le citazioni di storici greci, copti, latini, tra i quali uno ricorda i comportamenti due volte violenti dei foceensi.

Prima, nel 600 a. C. circa, quando sbarcarono alle Bocche del Rodano e fondarono una città in mezzo ai fenici (che allontanarono, certo non con le buone maniere) e a celti, etruschi e liguri che in quelle zone commerciavano e su di esse avevano sancito un Patto Internazionale. Poi, l’altra fondazione, quella di Alalia, sul Canale di Corsica e d’Elba, proprio in faccia a Pianosa e Scoglio d’Africa, come a voler campare di facile pirateria attaccando navi e borghi.

Non vogliamo certo perdonare i ceretani per quelle nefandezze. Ma li perdoniamo per la cura con la quale hanno chiesto perdono e soprattutto conservato memoria e riservato onore, al loro nemico di sempre.

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